2 – Dentro la tana del lupo: il patto segreto con Piccone

Angelo Venti
Angelo Venti
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Filippo Piccone ci viene incontro, alza il gomito per il saluto, poi ci indica con gentilezza le sedie dove accomodarci. La giovane segretaria, silenziosa, si ritira nell’anticamera, si siede al suo tavolo e si rimette al lavoro.

Piccone torna a sedersi dietro la sua scrivania, sull’altro lato ci siamo noi. Io seduto di fronte a lui, Claudio alla mia destra, con alle sue spalle la segretaria, nell’anticamera dello studio china sul suo tavolo. “Grazie per aver accettato l’invito”, esordisce Piccone. Poi, per rompere il ghiaccio, aggiunge: “Allora come state, ragazzi?”. Claudio, pronto, risponde: “Bene, onorevole, e tu?”. Piccone allarga le braccia, accenna ai suoi problemi di salute e, voltandosi verso di me, sospira sconsolato: “Ormai mi sto facendo vecchio. E’ l’età”.

Siamo coetanei – gli rispondo – Io non lo ricordo, ma un mio amico che abita di fronte l’ex sede di via Trento dell’Itis mi dice che la frequentavi anche tu”. Piccone ride sorpreso e inizia “Ah, l’industriale! E’ una lunga storia…”.

E inizia a raccontare. Suo padre, che su di lui dice aveva delle grandi aspettative, lo aveva iscritto all’Itis di Fermo, all’epoca il più rinomato. Ma aveva commesso l’errore di alloggiarlo in un collegio di preti: “Non sopportavo regole e disciplina. Sono stato sempre una testa calda, alla fine scappai”, ci dice. E ci racconta la sua storia di minorenne in fuga, la ricerca di un posto dove dormire, l’approdo in un hotel di Pescara dove il portiere di notte, impietosito, gli dà una camera. Infine, il ritorno a casa e l’iscrizione all’Itis di Avezzano.

Difficile a credersi, in un territorio così piccolo e sottopopolato, ma è la prima volta, in tanti anni, che ci incontriamo a tu per tu.

Piccone è seduto di fronte a me con alle spalle l’ampia finestra, ma la luce dei lampioni che filtra dalla vetrata mi impedisce di cogliere tutte le espressioni della faccia e lo sguardo. Il tono della voce, le pause, i gesti sono però sufficienti: quello che ho davanti è un uomo stanco, deluso: sembra solo l’ombra del politico potente che, incontrastato, ha dettato legge condizionando la vita pubblica ed economica dell’Abruzzo. E non solo. “Mi ha dato tante soddisfazioni – dice parlando della sua parabola politica – una esperienza esaltante che mi ha creato però anche tanti problemi: è ora di mollare”.

La conversazione assume per entrambi i toni dell’amarcord. E scivola sui tanti articoli di site.it, sulle nostre critiche documentate alle sue gesta spregiudicate, come ad esempio Siralto, Mega centro commerciale, Rivalutazione Trara srl, L’inceneritore Powercrop, Appalti per il terremoto, Map fantasma a Celano, Mega impianto fotovoltaico e via dicendo… Una scia lunga almeno 15 anni, vissuta sempre su fronti contrapposti.

Certo gli articoli erano molto duri, ma io non ti ho mai querelato” precisa Piccone, con una punta di orgoglio. “E’ vero – rispondo – ed è per questo che abbiamo accettato l’incontro”. Mi spiazza però quando dice: “A proposito. Ti chiedo scusa io per le minacce che ti ha fatto mio padre”.

Flashback 3 – Le minacce di Ermanno Piccone

Autunno 2014. Da alcune settimane denuncio la demolizione senza autorizzazioni delle vasche di decantazione dell’ex zuccherificio di Avezzano. I forestali sequestrano l’area e anche dei terreni  intorno alla Kromoss, dove viene smaltito il materiale di risulta.

Mentre con una collega fotografo quei terreni, veniamo intercettati e Ermanno Piccone, accompagnato da una sorta di  guardaspalle,  ci raggiunge nel vicino bar mentre con la collega stiamo bevendo un caffè. Il suo ingresso nel bar – che vedo dal grande specchio dietro al bancone – è degno di una scena de “Il Padrino”, in salsa celanese. Ermanno prova senza successo a provocarmi: gli rispondo, senza girarmi, di aspettare che finisco il caffè.

Interdetto e spiazzato, abbandona il bar ma ci aspetta fuori. Quando usciamo, si avvicina e sibila minaccioso: “Ti prometto, sulla memoria di mio figlio morto, che te la faccio pagare”. Nulla di preoccupante in sé, ma sono le minacce di un padre che giura sulla memoria del figlio morto: la cosa non va presa sottogamba. Decido così di fare una denuncia cautelativa ai carabinieri della Compagnia di Avezzano.

La cosa che mi fece incazzare – racconto rivolto a Filippo Piccone – e che oltre 2 anni dopo fui convocato in caserma e un sottufficiale mi chiese se confermavo la denuncia, così la portavano in Procura”. Realizzai così che i carabinieri si erano tenuti chiusa in un cassetto la mia denuncia: “Ormai era diventata inutile – spiego a Filippo – tuo padre in tutto quel tempo non aveva mosso un dito contro di me”. Tra l’indignato e il rassegnato, ritirai la mia querela cautelativa e uscii dalla caserma senza salutare…

Filippo Piccone al mio racconto annuisce e commenta: “Mio padre era fatto così, ma non era cattivo. Ci tenevo a dirtelo“.

Le tre inchieste della Procura

Scusate – scatta Filippo Piccone – ma non vi ho ancora offerto nulla. Bevete qualcosa? Volete un caffè?”. Claudio risponde che prende il caffè, “Anche io”, aggiungo. Piccone chiede alla segretaria di prepararceli.

 “Quanto zucchero?”, chiede la ragazza poggiando il vassoio sulla scrivania: “tutti e due amari, grazie”, risponde Claudio anche per me. La ragazza si ritira in silenzio al suo tavolo e Claudio, che fino allora ci aveva lasciato ai nostri ricordi senza intervenire, sorseggia il caffè e si guarda intorno. Poi poggia la tazza e chiede a Piccone: “Scusa ma con l’inchiesta in corso, qui dentro stai tranquillo?”.

Piccone risponde con un eloquente gesto della mano. Poi sposta il discorso: “Ho seguito i vostri articoli su Tagliacozzo e Capistrello – e senza nascondere la sua sua sorpresa aggiunge – Ci siete andati pesanti, avete dimostrato anche di avere le…”. Lo blocco con un gesto della mano, gli chiedo se possiamo fumare: “Come no!”, risponde veloce e spinge avanti il posacenere sulla scrivania. Io tiro fuori il tabacco e preparo la sigaretta, ma Claudio me la sfila di mano. Preparo la seconda per me.

Abbasso la mascherina e mentre fumiamo, dico: “Non è una questione di palle. Dopo aver letto le carte di quelle inchiete e visto il modus operandi degli inquirenti ci si sono drizzati i capelli. Se questo è il metodo, abbiamo pensato, può toccare a chiunque, anche a noi. Insomma –concludo sorridendo – più che coraggio è stata paura”.

Il discorso, a quel punto, verte brevemente sulle due recenti inchieste flop marsicane e scivola inevitabilmente sulla terza, in corso a Celano: Piccone conferma che sono gli stessi inquirenti e non nasconde la sua preoccupazione. “Dai documenti che ci risulta siano stati acquisiti – interviene Claudio – e dal clamore mediatico, ci sembra anche che il metodo applicato sia lo stesso”. E gli chiede quali siano, secondo lui, i motivi per cui solo dopo tanti anni la Procura si interessa di Celano.

Il discorso finisce così su un terreno scivoloso, dove inquirenti e nostri colleghi paiono indistinguibili come gatti grigi nella penombra: Piccone teme si tratti di una vendetta, scattata per un banale rifiuto a una richiesta. Claudio prende in mano la situazione e incalza con le domande: “Beh, se questo fosse vero potrebbero ravvisarsi delle analogie con la genesi delle altre due inchieste – puntualizza – Ma rimane da chiarire, e resta difficile da credere, come potrebbe, la pretesa di un privato cittadino, avere effetto su delle indagini che non lo riguardano direttamente”.

In risposta, con nostra sorpresa, ascoltiamo il senatore Piccone dolersi del fatto di essere stato minacciato di arresto, e non dalle Autorità: e constatiamo che ha subìto il colpo, che ha preso la cosa molto sul serio. Lo interrompe Claudio: “Lo ha fatto anche nei nostri confronti, in presenza di testimoni. Siamo stati costretti, a scanso di equivoci, a presentare una denuncia cautelativa”.

La telefonata della moglie

Filippo Piccone si dice certo che l’inchiesta di Celano, se mai avrà un seguito, si risolverà in una bolla di sapone, o quasi. Ma si capisce che è comunque preoccupato. Uno squillo del suo cellulare interrompe la discussione: “Scusate – dice prima di rispondere – è mia moglie”.

La telefonata dura pochi secondi. Claudio chiede: “Chiama per la cena?”. Lui dice di no, ma la risposta che dà ridendo ricorda quello che doveva essere il Piccone di una volta: “Ci sono tante chiacchiere su di me e le donne, e mia moglie è sensibile ai pettegolezzi. Mi chiama per controllare dove sto e cosa sto facendo”.

Ridiamo, ma la telefonata è l’occasione per guardare l’orario. Piccone coglie l’attimo, ritorna serio e, fissandomi, scandisce queste parole:

Si sta facendo tardi. Veniamo al motivo per cui ho chiesto a Sforza di combinare questo incontro. Si tratta di un vostro articolo che mi sta creando non pochi problemi. L’articolo è quello su…

2 di 3 – Continua nel prossimo articolo

Questo è il primo articolo della serie:

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