81. LA RIFORMA AGRARIA NEL FUCINO – artigiani: carradore – facocchio

Antonino Petrucci
Antonino Petrucci
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L’ultimo facocchio di Luco dei Marsi: Angelo Di Gianfilippo.

Questo mestiere nasce dalla sapiente quanto antica maestria di coloro che, a quello scopo, erano in grado di lavorare alcuni tipi di materiali completamente diversi tra loro, quali il legno, il ferro e il metallo, fondendo così tra loro due mestieri tra i più antichi al mondo: falegname e fabbro. Come il fabbroferraio anche i carradori con l’avvento delle macchine a Fucino videro ridursi il lavoro di tanto fino a scomparire. Spesso era esercitato come attività autonoma dai contadini più poveri per trarne un’integrazione del reddito, quello del carradore era un mestiere complesso, che si trasmetteva per via orale da una generazione all’altra. Il costruttore di ruote e di carri deve sapere di matematica e di geometria, masticare di disegno, deve possedere praticità, gusto e armonia, deve conoscere il legno (le varie essenze, varietà e proprietà) e il ferro, deve saperli lavorare e legare tra loro. Il carradore era anche maestro d’ascia. L’ascia è come una piccola zappa col filo del taglio orizzontale, leggera e maneggevole, il ferro innestato alla parte terminale del manico di legno ha una particolare inclinazione o angolatura, a 45 gradi. L’attrezzo è di una tale semplicità che sicuramente è uno degli attrezzi più vecchi inventati dall’uomo, eppure, chi lo sa usare ad arte con esso spacca il legno, taglia, incide, sagoma e pialla.

Il facocchio-carradore usava una grande varietà di attrezzi: raspe, lime, scalpelli, sgorbie, pinze e tenaglie, succhielli di varie misure, trapano a mano, il graffietto per segnare, il gattuccio, un seghetto a lama sottile, seghe a mano la cui lama era tenuta in tensione da una corda intrecciata con una stecca di legno poi fissata in contrasto al corpo centrale dell’attrezzo, e seghe più piccole, e poi morsetti e “sergenti” (morsetti molto più grandi), pialle, pialletti e sponderuole (pialla con corpo e ferro a registro più stretti), compassi, squadre, per calcolare le circonferenze. Le ruote erano composte da segmenti di circonferenza uguali fra loro, in legno, da cui, previo opportuno incastro, partivano due raggi, che terminavano incastrati nei fori che facevano corona al mozzo della ruota. Per fabbricare il mozzo si partiva da un parallelepipedo di legno di olmo o maggiociondolo che era prima sbozzato con l’ascia così da ottenere come un grosso cocomero con punte più accentuate, poi messo al tornio. La mano esperta del carradore guidava e comandava l’attrezzo, il coltello, che con più pressione della mano affondava e consumava il legno lì dove la circonferenza doveva essere minore. Nella parte centrale del mozzo andavano poi ricavati gli alloggiamenti per i raggi, e poi veniva bucata nel senso trasversale per consentire l’innesto della parte terminale dell’asse (assale). Quando poi le ruote dovevano essere innestate sulle parti terminali dell’asse, era prima applicato un lubrificante speciale, grasso di pecora, che proteggeva a lungo le parti metalliche a contatto fra loro.

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Laureatosi in architettura presso l’Università La Sapienza di Roma, ha esercitato la professione di architetto per circa trent’anni, oggi insegna alla Scuola Secondaria di Primo Grado presso l’Istituto Comprensivo GIOVANNI XXIII-VIVENZA di Avezzano. Appassionato di storia recente e di politica, è autore di uno studio sulla Riforma Agraria del Fucino, che si articola in 167 tra capitoli e sottocapitoli, pubblicata sui gruppi Facebook “Ortucchio in parole e immagini” e “Luco, ieri e oggi”.