Una recensione punk – Il caso esemplare del Fucino nella summa di Costantino Felice

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
22 Minuti di lettura

Del professor Felice, emerito di storia economica alla D’Annunzio di Pescara, è ben conosciuta la produzione di studi e saggi sul Mezzogiorno contemporaneo, ed in particolare di quelli aventi ad oggetto le complesse dinamiche che hanno informato l’evoluzione otto-novecentesca degli Abruzzi, sino ai giorni nostri. Di quest’espressione geografica, della quale egli ha sempre sottolineato l’irriducibilità a soggetto unitario (ovvero: la insostenibilità concettuale di quel passaggio dagli Abruzzi citati nella Costituzione repubblicana del 1948 – portato dei moderni ambiti: Citra / Ultra / Ultra Secondo – alla denominazione dell’ente Regione Abruzzo adottata nel 1970), ha spesso evidenziato le contraddizioni che ne hanno caratterizzato la trasformazione non meno di quelle che hanno preso campo nelle elaborazioni e nell’immaginifico che di tale trasformazione sono portato-prodotto-giustificazione teorica.

In senso ostinatamente contrario ad una certa politica (quella maggiormente corrente in tutte le province abruzzesi) ed agli interpreti dello spirito pubblico, Costantino Felice non ha mancato di esprimere, dai tempi non sospetti della cosiddetta prima Repubblica, tutte le proprie riserve sull’azione politico-amministrativa (ovvero il particolare ‘clientelismo virtuoso’ di emanazione democristiana transitato sin nell’analisi alta dell’economia) del conterraneo Remo Gaspari, e sulla coinastata vulgata ideologica con la quale si è imbellettata sotto una spessa coltre di patina di conformismo il caotico stravolgimento delle plaghe abruzzesi registratosi a partire dal secondo dopoguerra; processo storico i cui cascami, celati sotto il tappeto per tanto tempo, sono oggi evidenti a chiunque voglia osservarli, oltre agli indubbi benefici.

Nondimeno, in un testo più recente, seguito al terremoto aquilano del 2009, il professor Felice si è peritato di mettere in guardia i lettori dal pericolo rappresentato dall’Identità abruzzese, concetto vago come detto ma alla base di tutte o quasi le costruzioni intellettuali e di memoria partorite nella nostra regione, e che nel post-sisma del 6 aprile ha rappresentato il paradigma retorico di ogni azione / ordinanza / modello L’Aquila (si è trattato, anche qua, probabilmente, di camuffamento della realtà effettuale). L’allarme, molto fondato e assennato, non è stato recepito per come esso avrebbe meritato, in specie ove – le zone residuali di entropica ingravescenza appenninica – più se ne sarebbe dovuto far tesoro.

Pure, se si volesse individuare l’argomento sul quale Felice ha manifestato, negli anni, l’opinione maggiormente urticante rispetto a quella imperante nel pantheon dell’Abruzzo (degli Abruzzi), non esiteremmo ad indicare la storia del Fucino. Non a caso, in questo 2023 il professore è tornato a dedicarsi alla formidabile «manomissione ambientale» realizzata a metà Ottocento dalla casata romana dei Torlonia con il prosciugamento del più esteso lago dell’Italia meridionale per realizzarvi quelle produzioni agricole che l’apertura dei mercati nazionali (Roma, Napoli) e internazionali consentiva. Titolo e sottotitolo del saggio edito da Donzelli, Una storia esemplare / Fucino: bonifica, riforma agraria, distretto agroindustriale testimoniano del sincero entusiasmo del professor Felice per l’esperimento del Fucino, in tutti i suoi aspetti tecnico-socio-economico-antropologici. Caso ‘esemplare’ connotato, a giudizio dell’Autore, da molte luci e poche ombre, del quale egli, dal saggio del 1992 su ‘Italia Contemporanea’ (Azienda modello o latifondo? Il Fucino dal prosciugamento alla riforma) per passare al monumentale Verde a Mezzogiorno. (L’agricoltura abruzzese dall’Unità ad oggi) di quindici anni fa si è diffusamente e approfonditamente occupato, sino a chiudere idealmente, con questa saggina, un percorso consolidato di lettura dei fatti.

Accade spesso che chi vi sia chi – maneggiando con perizia gli strumenti delle scienze umanistiche – riesca ad individuare, di lontano, i processi che i diretti interessati, in essi totalmente immersi, non mettono esattamente a fuoco. Da determinati punti di osservazione è possibile – certo: da chi è in grado di leggere in tralice – individuare quei fatti e quei fenomeni che nell’agone polveroso del vivere quotidiano comunità e singoli ritengono più utile (o più comodo, o più facile) ignorare o occultare, sempre in nome di quella vulgata ufficiale che da noi transita sotto le insegne di un folclore locale poco accorto, quando non sguaiato, in difetto dell’azione moderatrice ed educatrice della politica e della cultura (fenomeno che si indovina anche nel Fucino, e che il testo di Felice, mettendo tutto in fila, mostra partire – ma sarà un accidente, un caso – dall’assurgere dell’ente Regione a dominus di processi prima in testa allo Stato e ai pretesi latifondisti / non pigri, né l’uno né gli altri).

A chi, come noi, è toccata la ventura di nascere nel Fucino, ineliminabile e naturale alla stregua di quella leggera indefinibile foschia che avvolge i paesi intorno all’alveo (un effetto del prosciugamento?), è venuta in sorte una retorica, quella delle lotte del Fucino, che ci ha accompagnati sin da bambini, e che si solennizza come le feste comandate. Racconti dei nonni, testimonianze, celebrazioni: sarebbe di grande interesse antropo-sociologico lo studio della stessa trasformazione in mito di quella battaglia per la cacciata di Torlonia. Una storia di grande effetto, certo, e di grande riuscita narrativa, alla quale siamo affezionati, che ha però il difetto – in un inveramento, almeno ai nostri occhi, della triade vero/falso/finto ginzburghiana – di costituire, tre quarti di secolo dopo gli accadimenti, una corazza storiografica (un busto) che non lascia quasi respirare. Si è talmente solidificata, a mo’ di gesso, questa versione, che persino le fazioni politiche teoricamente eredi del dissidio verso la Riforma del 1950-51 (la destra, una parte notevole della Dc, i liberali) sono da decenni transitate a cantare le magnifiche sorti progressive che sinistra e comunisti (soprattutto questi ultimi, attraverso un metodo ed un’organizzazione non studiati sinora per come meriterebbero) intesero con geometrica potenza perseguire con gli scioperi a rovescio e la mobilitazione dei paesi rivieraschi nel primo decennio succeduto alla caduta del regime fascista (periodizzando: 1944-1954). Scene lunari.

La lotta contro Torlonia dell’immediato secondo dopoguerra, ricostruita dal Felice con la consueta vividezza e pertinenza, ha comportato un pregiudizio verso la casata romana che si è riverberato su tutta l’azione condotta da quella famiglia nelle nostre zone, da metà ottocento, comportando che si retrodatasse la censura a partire da quando il principe Alessandro intraprese il visionario progetto di prosciugare il Fucino. Pregiudizio ancor oggi fortissimo, e che si manifesta nelle forme più svariate (talune delle quali comiche e persino patetiche), che non tiene conto di tutto quello che Costantino Felice sostiene da anni, ovvero che l’opera del prosciugamento abbia vividamente incarnato lo spirito del moderno capitalismo e del positivismo ottocentesco, e che quanto non riuscì nel primo – più dinamico – cinquantennio della Eccellentissima Casa a Fucino potrebbe essere in realtà ascritto alle cause permanenti d’ambiente che i Torlonia trovarono mettendo gli stivali sul terreno (dall’apposizione dei cippi sulle acque del lago dell’agosto 1862 in poi), ovvero all’atavico feudalesimo che connotava le nostre plaghe. La storia a cavallo tra Ottocento e lodo Bottai è quella di grandi opere idrauliche e di meccanizzazione e sperimentazione in agricoltura dispiegate dai Torlonia, e la loro venuta a patti con il Territorio, e con i rappresentanti di questo, i gabellotti, il ceto locale egemone, le pagliette. Su questo, le parole del barone Franchetti in visita al Fucino nel 1873, riportate da Felice, sono eloquenti: «Torlonia è molto amato dai contadini, odiato dai signori» (p. 15). Quei signori abbarbicati sulle balze di terreni che hanno perso quasi tutta la loro attrattività con la bonifica della piana, e che con l’emigrazione verso Roma e le Americhe non suscitano più alcun interesse negli indigeni: indiscutibile che l’azione dei Torlonia abbia costituito, sotto tale profilo, «un fattore di perturbamento dei vecchi equilibri economici e sociali» (p. 21) ed assumere che i nuovi si siano rivelati peggiori di quelli preesistenti solo per diffondersi, oggi, in una retorica livorosa anacronistica è operazione discutibile. In specie quando gli stessi Torlonia – che mai si sono curati, sino ad oggi, di controbattere, in tutte altre cose affaccendati in tempi di tribolo, di ville chiuse, di banche in crisi e di Lungare con le opere d’arte ammassate – hanno recentemente imboccato un sentiero che meriterebbe un minimo di ausculto, e di ascolto, con la creazione della ‘Fondazione Torlonia’.

Non è da oggi che si registrano, soprattutto ad Avezzano – che non a caso non ospita la raccolta dei Torlonia sul Fucino finita a Celano (per espressa volontà, pare, del principe venditore Alessandro, deceduto giusto un lustro fa) – le più incredibili pretensioni e asserzioni riguardo alle infamie consumate della Eccellentissima Casa che forse, nel 2023, dovrebbero e potrebbero essere stemperate in una più oculata disamina storiografica, per il bene stesso di quella Città (il cui palazzo storico più importante è intitolato a Torlonia, famiglia che lo ha costruito e poi riedificato dopo il 1915; come anche la piazza più rilevante della cittadina è nominata Torlonia, ed ospita la fontana che la Casa volle per condurre l’acqua potabile dalle montagne sino al centro; nondimeno il liceo e l’unico parco cittadino recano lo steso impegnativo cognome; and so on). Nell’analisi storica esiste il contesto, non si può ragionare obnubilati dalla morale un tanto al chilo.

Sotto tale ultimo profilo, l’analisi di Costantino Felice, per nostra fortuna e suo indubbio merito, non lascia adito a dubbi: l’avventura dei Torlonia a Fucino, lungi dall’integrare la fattispecie del latifondo meridionale improduttivo e abbandonato dai suoi stessi proprietari (almeno su questo speriamo non vi siano più dubbi) fu un grandioso intervento di matrice capitalistica, agricolo-industriale, di rilevanza europea e mondiale, che non può essere liquidato con l’approccio piccolo-avezzanese né con quello – altrettanto endemico ed infestante, ove non posologicamente limitato – siloniano.

Qui c’è un altro snodo delle opinioni consolidate di Costantino Felice, che in sostanza considera inappropriato il transito, nell’agone storiografico e dell’analisi scientifica, della surrealistica (quest’ultimo aggettivo è nostro, beninteso) visione che scaturisce dalla fantasmagorica opera intitolata Fontamara. Quest’immortale libro costituisce un romanzo, termine con il quale, come ognuno sa, si definisce un’opera di invenzione (che, certo, può contenere fatti e contenuti desunti o ispirati dalla vita reale) che non dovrebbe essere utilizzata per trattare di Storia in quanto tale, o adibita quale fonte al di fuori della stretta critica letteraria. D’altronde, a rifletterci bene, lo stesso Silone dovette spiegare, su Prospettive meridionali,  che localizzava il borgo di Fontamara ben lontano dal pianoro fucense ma il paradigma del ‘cafone’ è duro a morire, nelle analisi sul Fucino e sui Torlonia, e probabilmente non verrà mai rimosso dal dibattito, incistato com’è, nelle interpretazioni quadro e squadro, sulle forme di rapporti di produzione parafeudali che pure coesistettero accanto a quelle moderne determinate dall’azione dei principi romani. Il frammento sulle macchine di Marx e Columella, tutto insieme. Le parole di Felice sul Fucino sono il compendio di tutto ciò: «un misto di moderno capitalismo e di residui feudali» (p. 50); «moderno capitalismo e atavico feudalesimo» (pag. 56): il combusto di ciò è ascrivibile alla responsabilità del solo cognome Torlonia? Sarà mai possibile, in difetto di evidenze documentali, ascrivere il caotico sistema di affitti e subaffitti che ha connotato tutta l’era del Fucino toroloniano, alla volontà del solo padrone delle terre?

Fontamara è un falso terribilmente verosimile, di qui la sua grandezza. Diacronica. Ma per lo studio della storia del Fucino Fontamara rischia di rappresentare la scorciatoia retorica imboccata dai tanti don Circostanza che sulla storia locale si gettano, con prassi da bricolage e approccio da racconto dei nonni dinanzi il camino (quanta nostalgia!).

Quel che viene diligentemente messo in fila dal professor Felice è di per se stesso un processo storico intelligibile, che mostra come sino alla curvatura degli anni Trenta del secolo scorso e al ripiegamento dei vari rami della famiglia Torlonia (occupati dalle divisioni ereditarie di un patrimonio ingentissimo, e poi da una sorda battaglia con lo stato italiano per le tasse, i palazzi, gli espropri) strapotere economico e visionaria tendenza egemonica abbiano fatto grande il Fucino (pur con delle criticità, acutamente rilevate dal Felice, presenti pure ove la potenza tecnica della famiglia sembra[va] aver imposto una rivoluzione: si pensi alla importazione dal nord Europa della coltivazione della barbabietola e delle macchine necessarie per lavorarla [per chi volesse, i verbali di collaudo dello zuccherificio, conservati nei repertori di un notaio avezzanese di oltre cento anni fa, sono redatti in tedesco: per dire]; o alla malteria).

Piuttosto, su quel che è venuto dopo Torlonia, ancor oggi impera un silenzio che non può non ricondursi al senso di colpa collettivo. L’azione dell’ente riforma e di valorizzazione del Fucino venuto, con la Repubblica, dopo l’esproprio della Eccellentissima Casa è un chiaroscuro che l’opinione pubblica, le popolazioni e gli studiosi non hanno ancora affrontato con la risolutezza e l’onestà che un simile tema meriterebbe. Sul Territorio, come ha pazientemente mostrato, effettuando, di recente, una ricognizione certosina, l’ingegner Antonino Petrucci, restano le vestigia e i residuati di una guerra che il mondo contadino ha combattuto a tempo scaduto, quando cioè nel secondo dopoguerra si è messo mano nel suo nome ad azioni (si pensi ai borghi rurali di Vittorini, così invisi a Bruno Zevi) che avrebbero avuto un senso reale trenta o cinquant’anni prima, e non alla vigilia del boom economico e dell’esodo massiccio dall’agricoltura. L’esercizio contro-fattuale, oggi, non può dirci più di tanto, senza le opere dell’Ente Fucino probabilmente avremmo avuto un collasso della piana. Collasso sociale beninteso: opportuno il richiamo alle parole di Colapietra alla «finalità non agronomica ma schiettamente sociale» (pag. 95) dello sciopero a rovescio e di tutto ciò che tale epocale evento ha determinato. A volte le finalità sociali ed il contingente fagocitano la visione.

Sia come sia, su questo, sul dopo-Torlonia, ci permettiamo, l’opera di Costantino Felice vuole provare troppo. Mette insieme l’agricoltura, l’industria ad esso legata (ancora debolissima la trasformazione, vero baco del sistema) sino al nucleo industriale e ai processori, quasi a suggerire che il tutto sia l’esito di un’azione di sistema, di rete. A noi non pare ciò. Il ‘capitale sociale’ che ci si indica quale prodotto complessivo (p. 172) suscita molte perplessità, per come evocato. Risulta anche in palese contraddizione con il profilo di «innata riottosità dei contadini d’Abruzzo, per difetto di preparazione, a partecipare a una cooperativa» (pag. 74), in sintesi all’azione collettiva della contrada. Alcuni esempi citati, quale quello aberrante della ‘Fucinortaggi’ (pag. 179), non depongono certo nel senso prospettato dall’Autore.

Noi, che siamo di Fucino, siamo molto dubbiosi sulla circostanza che si possa legare e racchiudere tutto ciò che oggi vediamo in un unico paradigma, e men che meno riteniamo che tale insieme lo si possa considerare virtuoso. Ci sarà – speriamo – modo di mettere mano (documentazione permettendo) a quella storia di archivio di deposito degli anni Settanta-Ottanta del Novecento e di arrivare sino ai nostri giorni. Potrebbe uscirne una descrizione di decadenza di maggior impatto di quella che si immagina.

Resta questo testo di Costantino Felice, imprescindibile per chiunque voglia accostarsi al tema del Fucino, zeppo di suggestioni, tra le quali ci permettiamo segnalare, oltre quelle già sopra sommariamente evocate, quelle del ri-appoderamento in funzione diretto-coltivatrice dell’onorevole Vincenzo Rivera (Rivera che, in una sorta di nemesi interpretativa, è citato più di Silone nel libro) e la trattazione sulla ‘valorizzazione agricola’ della parte finale, con un’analisi radiografica diremmo delle conferenze regionali sull’agricoltura abruzzese che hanno contraddistinto il periodo precedente a quello del nulla (o quasi) elaborativo odierno. Con rispetto parlando.

Progetto Powercrop

Quei rapporti di produzione feudali che sotto Torlonia non erano scomparsi, sono ancor oggi visibili, e improntano, come per il passato, l’azione e le produzioni dei nuovi imprenditori del Fucino. Un ceto antimodernista ma non antimoderno, che esprime in diversi suoi esponenti una visione patriarcale dell’attività imprenditoriale e del lavoro sulle terra che non esitiamo a definire ‘passatista’. Di qui l’atteggiamento anti-ambientalista, che tiene in non cale la questione della depurazione e della salmonellosi, che spiega il cupo brigare per far insediare l’inceneritore PowerCrop sulle sponde dell’ex lago (si tace, per conflitto d’interessi, sull’inquietante silenzio di alcuni anni or sono sul progetto di discarica di ‘Valle dei fiori’ di Gioia dei Marsi, che avrebbe compromesso l’ingentissimo acquifero del sistema carsico sottostante). Un mondo che utilizza l’intelligenza artificiale per seminare e trasformare le carote ma che spesso si pone dinanzi alle questioni con l’elaborazione degli anni Cinquanta del Novecento: e giù di chimica, e vai con l’emungimento dalle falde senza controllo (e senza rispetto delle raccomandazioni europee).

Un mondo non a caso in prima fila nella battaglia reazionaria contro il cibo sintetico così di moda proprio in questi giorni. Basterebbe analizzare che fine abbia fatto l’impianto irriguo finanziato nella scorsa legislatura regionale tra le mani degli attuali detentori della maggioranza all’Emiciclo, per rendersi conto che l’ottimismo di Costantino Felice è eccessivo. Anche in ragione di minacce gravissime che sovrastano il pianoro del Fucino, che con tutta probabilità non sarà in grado di resistere agli interessi di organizzazioni non esattamente dedite ad opera di beneficenza, e che certamente non è nelle condizioni per mettere mano a quella trasformazione ambientale e biologica che sola potrebbe salvarlo (trasformazione che parte paradossalmente dalla liquidazione, sul terreno, della eredità fisica del Passato: cosa non banale, e non scontata).

ilmartellodelfucino@gmail.com

Condividi questo articolo