Ricordi per un pomeriggio agostano avezzanese

Giuseppe Pantaleo
Giuseppe Pantaleo
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Domenica scorsa, ho espresso alcuni consigli di tipo «strategico» alla presentazione di G. Altobelli, Omnia Mutantur – se n’è parlato su questa testata. (Proprio nel senso della: «via, il tempo, il terreno, i comandanti e la disciplina», di Sunzi bingfa). Si possono riunire, da queste parti, in qualche maniera persone che si occupano di arti visive, letteratura varia e musica? Il mio consiglio-base ha riguardato appunto il terreno su cui muoversi. Ho sforato il tempo assegnato ma avevo dell’altro da aggiungere; più di uno mi ha consigliato di scriverlo e pubblicarlo.

Dopo una serie di altrui citazioni (studi, statistiche, graduatorie, notizie), avrei aggiunto una parte di ricordi. Si trattava di fatti personali in mancanza di materiali scritti utilizzando un metodo storico e riguardante oltre mezzo secolo di vita delle arti visive ad Avezzano; in fondo, stiamo vivendo la parabola discendente di un «movimento» iniziato proprio in quegli anni. È importante a questo punto porsi la domanda: quando gli Homo sapiens hanno iniziato a tracciare segni in questa zona? Scrivo 10mila anni per prudenza e aggiungo: da allora non si sono più fermati. (Il 20 avevo segnalato soprattutto la lacuna – in città – della scarsissima o nulla conoscenza circa l’attività artistica di ventenni, trentenni e quarantenni).

A un certo punto della mia adolescenza, in visita da qualche amico cominciavo a notare uno o più quadri appesi alle pareti come non era successo fino a pochi mesi prima. In gioventù mi chiesi se a scatenare quel fenomeno c’entrasse il Sessantotto o l’ultimo lp dei Beatles. No minimamente, era in buona parte un riflesso del precedente boom economico. Qualcuno chiederà: «E l’altra?». Il resto deriva dal passaggio dall’economia italiana tra gli anni Venti e Trenta a quella della repubblica democratica. In breve: durante il fascismo, nove italiani su dieci mangiavano carne durante l’anno quattro o cinque volte – nelle feste principali – mentre negli anni Cinquanta, la stessa proporzione cucinava proteine animali tutte le domeniche. Nello stesso decennio, gli italiani presero ad acquistare frigoriferi, lavatrici e infine televisori. Alla fine degli anni Sessanta, da noi un quadro smise di essere un bene particolare o di lusso e divenne un oggetto di consumo – mio padre aveva allora già riempito un paio di scaffali con gli Oscar Mondadori… (A questo punto, è bene rilevare come ci si trovi già immersi in un clima da tragedia greca, con gli uomini in balia di forze oscure e capricciose).

L’elemento interessante per me, non è tanto chi dipingeva (decentemente, malamente, così-così), quanto chi ha acquistato migliaia di pezzi durante almeno un trentennio. Gli acquirenti erano in realtà anche persone che costituivano una buona parte del pubblico di premi, mostre ed estemporanee che si tenevano anche nell’hinterland; era gente che si ritrovava negli incontri d’arte o costituiva associazioni di tipo culturale; li notavi all’edicola con qualche rivista d’arte sotto il braccio. (È da rimarcare: furono esposte delle ottime opere in quel periodo). Loro erano lo scheletro di tale sorta di movimento, certo più di chi dipingeva e di chi presentava le opere: nessuno ha tirato avanti vendendo quadri o scrivendo presentazioni in quel periodo, da noi – prevedibilmente. (Nessuno anche in seguito). Alcuni pittori si associavano, talvolta intervenivano nella vita della città con una lettera ai quotidiani locali; i giornali a loro volta informavano quando qualcuno si spostava per una mostra in qualche paesino o una città più grande del capoluogo marsicano – solo alcuni però –, ecco: mi sembravano quasi delle conquiste territoriali. A questo punto avrei infilato una «notizia» che finora ho confidato solo a una decina di amici discreti: ho esposto alla Collezione Peggy Guggenheim (1994); tutto ciò sarebbe però servito a mostrare come quella e altre mie sortite non siano state utili né al sottoscritto né tanto meno alla città – in realtà rappresentano una parte dell’attività, soprattutto se si vive in una città piccola e molto provinciale come Avezzano.

Quella situazione prese lentamente a scemare – nella zona – dalla metà degli anni Novanta: perché? (Poi c’è stata la mazzata della crisi finanziaria internazionale alla fine del 2008). Non posso averne una chiara visione, non essendo un giornalista né tanto meno uno storico ma una mezz’idea derivante appunto dall’esperienza personale, quella sì. Alla metà degli anni Ottanta, si è assistito al rapido sdoganamento del fumetto, per lungo tempo considerato un modo per intrattenere il popolino: diventò arte vera e propria esposta e venduta anche nelle gallerie. J.-M. Basquiat, K. Haring e le immagini del muro più colorato e famoso del Pianeta resero familiare il murale anche da noi. Negli anni Novanta, si diffuse l’acromia: si dipingevano gli interni di una casa completamente di bianco e non di rado si evitava di riappendere i quadri – si preferivano le pareti spoglie. Ancora a quel periodo, risale l’affermazione del design italiano come oggetto di consumo: in molti scelsero di acquistare anziché una tela, un tavolino o una poltrona (καλὸς καὶ ἀγαθός). Cambiarono anche i «produttori». La retorica del Made in Italy legata al settore della moda, produsse un fiorire d’istituti privati legati a quegli oggetti; i giovani s’iscrivevano senza remore a un qualsiasi istituto di design. Vai con le scuole di fumetto, dopo ciò che io ho scritto in precedenza… Chi aveva frequentato il liceo classico si ritrovò a spruzzare tagline sui muri, quelli della scuola d’arte scrivevano invece romanzi e poesie. Dopo la morte di Calvino partì, da parte delle maggiori case editrici, una sorta di caccia al giovane autore di romanzi. (È bene ricordare che si entrò nell’epoca del «narcisismo di massa»). Anche lo scrivere divenne senz’altro più gratificante che dipingere – spuntarono nella Penisola diversi festival letterari.

C’era una gran confusione, il paesaggio culturale era mutato nel giro di pochi anni. Porto un esempio istruttivo. Mi furono chieste per Marsarte (2009) delle illustrazioni – era una collettiva di pittura ma nessuno lo considerò un sacrilegio –, io presentai anche l’originale per la copertina di un cd uscito una dozzina d’anni prima: in quell’occasione, l’avrà visto sì e no tre-, quattrocento marsicani mentre la tiratura iniziale di quel prodotto musicale era una cifra a quattro zeri… Tirando le somme: il classico quadro e l’attività che lo riguardava avevano perso non poco del loro fascino; inoltre, erano necessarie meno persone per coprire il fabbisogno. Poco dopo, la stampa digitale facilitò la produzione di diversi prodotti dell’ingegno – è bene non dimenticare il ruolo del computer – mentre internet e social network facilitarono la loro diffusione – soprattutto brani musicali. (In questo caso parliamo di complotto della Tecnologia o c’entrano ancora le forze oscure che tramano nell’ombra?).

Ecco, ho saltato tutto questo; avrei accennato anche all’attività di cinque gallerie d’arte nei decenni passati, mentre oggi resiste solo una e mezza. La mezza è anche sede Pro loco… (Non acquisto da almeno un paio di decenni Flash Art e ho ben presto mollato Art e Dossier; da anni, sono scomparsi dalla circolazione i miei amati acquarelli Winsor & Newton…).

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Lavoro come illustratore e grafico; ho scritto finora una quindicina di libri bizzarri riguardanti Avezzano (AQ). Il web è dal 2006, per me, una sorta di magazzino e di laboratorio per le mie pubblicazioni.