L’informazione ai tempi dei social media

Alfio Di Battista
Alfio Di Battista
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La frase nell’immagine di copertina recita: Nell’epoca dell’informazione l’ignoranza è una scelta, una frase attribuita all’americano Donald Miller, autore e imprenditore, che rende molto bene ciò che oggi è il rapporto fra l’opinione pubblica e i media, sempre più social.

Questi sono tempi in cui l’informazione fa sempre più fatica a connotarsi come strumento di condivisione della notizia, non fosse altro per il fatto che la notizia stessa non ha quasi più nulla a che fare con un accadimento, un evento, un fatto che val la pena raccontare perché di interesse collettivo.

Per come vanno le cose oggi, un fatto non fa in tempo a diventare notizia, che già si squaglia come neve sotto al sole incandescente dei social media. Il meccanismo infernale della comunicazione ad horas ha trangugiato l’essenza degli eventi che muoiono nella culla prima ancora di acquisire significato e senso finito.

Oggi un sindaco, piuttosto che un parlamentare, mentre inviano la velina del loro comunicato alle redazioni, postano il pezzo sulla loro bacheca, corredandolo di foto e video, spesso di eccelsa fattura tecnica, ma al tempo stesso, assolutamente privo di senso della condivisione.

Se ci atteniamo al senso etimologico della parola condivisione che sta nel dividere, ovvero spartire con gli altri qualcosa, ci rendiamo facilmente conto che l’imponente sovra produzione di messaggi sparati sui social da personaggi pubblici, altro non è che rappresentazione di se stessi, né più né meno che atti dimostrativi, mirati a occupare spazi mediatici, riempiti di ego ma vuoti di significato collettivo.

Tuttavia il fenomeno è abbastanza diffuso e travalica le figure pubbliche della politica, dell’economia ma anche del giornalismo stesso. Il narcisismo latente nella società, grazie ai social, ha trovato tribune insperate, facili e a basso costo. Chiunque può avvalersene a piacimento ma usarle non equivale a saperle usare.  

Rimane da capire che ruolo gioca la stampa in tutto questo, cosa fanno i giornalisti se la materia prima, il fatto in sé, viene consumato ancor prima di diventare notizia. Forse una ragione alta del proprio ruolo, la stampa può ritrovarla nell’occuparsi delle cose che non si dicono.

Le cose non dette che restano nell’ombra, non perché prive valore, tutt’altro! È che certi argomenti danno spesso fastidio a una certa politica untuosa che ama oleare i meccanismi perché continuino a girare come hanno sempre fatto. Per un giornalista, tacere dovrebbe essere un ossimoro, ma spesso, è esattamente ciò che fa. Paura? Quieto vivere? Pavidità? Collusione? Ma allora perché non fare altro?  

Mi si dirà che anche i giornalisti tengono famiglia, in tal caso, meglio fare gli addetti stampa che è un altro mestiere, e in effetti, molti lo fanno con dignità e consapevolezza del ruolo. Non c’è nulla di male nel fare il portavoce di un politico piuttosto che l’addetto stampa di un ente locale, purché si resti nell’alveo di un ruolo che non ha nulla a che vedere con la ricerca dei fatti finalizzati alla notizia.  

La differenza fra un giornalista e un portavoce è fin troppo evidente: il primo fa domande, il secondo porta risposte di altri. Un portavoce non è pagato per fare domande ma per concordarle. Il giornalista invece fa domande, lui non vuole semplicemente risposte ma cerca nelle risposte l’essenza dei fatti.      

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