Il “vecchio cimitero” napoleonico di Civita d’Antino

Antonino Petrucci
Antonino Petrucci
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A cura degli architetti Clara Cipriani e Antonino Petrucci

Per chi arriva a Civita d’Antino già agli ultimi tornanti può scorgere, addossata alla montagna in posizione panoramica sulla sottostante valle del Liri, una strana costruzione simile a un fortino: è il vecchio cimitero del paese conosciuto con l’appellativo di “napoleonico” in quanto fu progettato e realizzato secondo le norme introdotte dall’Editto di Saint Cloud del 1804[1].

[1] E’ conosciuto come Editto di Saint Cloud la raccolta di tutta la normativa allora esistente relativa ai cimiteri che Napoleone Bonaparte promulgò il 12 giugno 1804 con l’intento di rispondere ai gravi problemi di ordine pubblico come quelli igienico-sanitari della popolazione. Le norme furono poi estese il 5 settembre 1806 su tutto il territorio soggetto alla giurisdizione napoleonica come il Regno di Napoli all’epoca governato da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone. Molte di queste norme sono rimaste in vigore anche dopo la caduta del regime napoleonico all’interno delle disposizioni di “polizia mortuaria” fissate dall’Editto di Polizia Medica per l’Italia.

Fronte principale sulla Valle Roveto

In Italia furono realizzati solo pochi edifici cimiteriali seguendo le norme dell’editto napoleonico[2], quello di Civita d’Antino è il meglio conservatosi anche grazie a un intervento di ristrutturazione eseguito nel 1977 per interessamento della Signora Marcella Rufi Di Rocco, che ne ha impedito il completo disfacimento (come ricorda una targa posta all’ingresso).

[2] I cimiteri “napoleonici” sono pochi e quasi tutti concentrati nel centro Italia, ne citiamo solo alcuni come quello di Fontechiari (FR) a pianta circolare, Cavriago (RE) a cielo aperto, Terelle (FR), Cassinate (LT), Civitacampomarano (CB).

Lapide Commemorativa dei lavori di ristrutturazione

La sua progettazione risale al 1833, mentre di fatto fu realizzato tra il 1836 e il 1841 quando, con verbale del 2 novembre 1841, fu riconsegnato dall’ingegnere provinciale al sindaco del paese[3]. Pur se realizzato dopo la fine della dominazione napoleonica (cessata di fatto nel 1815 con la morte di Gioacchino Murat) e la restaurazione del Regno borbonico, la struttura risponde fedelmente ai dettami dell’Editto napoleonico: la tumulazione dei morti avviene fuori del centro abitato e segue la logica della sepoltura comune e anonima dei defunti, senza nessuna lapide (ispirata non solo ai principi egualitari della rivoluzione francese, ma anche per questioni igienico-sanitarie)[4]; è presente una piccola area, esterna e ben nascosta, dedicata alla sepoltura dei non cattolici (antesignano dei “cimiteri acattolici”).

[3] Archivio di Stato dell’Aquila, Sottintendenza e Sottoprefettura Avezzano, Intendenza, serie II, b.165.

[4] All’interno della struttura cimiteriale le prime lapidi risalgono ai primi anni del novecento, sono tuttora visibili anche se non tutte si conservano in buono stato.

L’edificio cimiteriale nonostante la sua struttura architettonica semplice, nasconde molteplici elementi simbolici che rimandano a una matrice vicina alla Carboneria o più semplicemente la sua progettazione è stata influenzata dagli aristocratici intellettuali locali.[5]

[5] Ci riferiamo a Filippo Morichini, Segretario del Decurionato al tempo della costruzione del fabbricato, e a Domenico illustre chimico e dottore di Papa Pio VII, originari di Civita d’Antino; ma soprattutto la famiglia Ferrante che sul finire del cinquecento si stabilì nel paese esercitando la sua influenza politica ed economica sul borgo praticamente assoluta fino alla prima metà del novecento. Nel sontuoso palazzo di famiglia i Ferrante creano un ricco salotto artistico-letterario accogliendo illustri ospiti di passaggio come Keppel Craven, Sir Richard Col Hoare, Kristian Zohartmann, Edward Lear, Theodor Mommsen. A metà del settecento Domenico Ferrante (1752- 1820) e suo fratello Francesco (1755-1815) sviluppano un grande interesse per l’archeologia tanto che Domenico è considerato il primo archeologo di Antinum e il fratello dell’antica Angizia. Antonio Ferrante (1786-1869) è deputato al Parlamento borbonico nel 1848 e primo sindaco del paese dopo l’unità d’Italia, altri della famiglia ricompreranno questo ruolo come Manfredo (1819-1881), Filippo (1862-1915), Enrico (1861-1943).

E’ posizionato su un piccolo costone roccioso a ridosso delle mura ciclopiche dell’antico abitato italico[6] (in prossimità di porta Campania), lungo la carrareccia che anticamente collegava il paese a Sora e quindi all’area napoletana; un luogo decentrato e marginale dal centro abitato, mentre la struttura si sviluppa tutta lungo il declivio pertanto difficile da individuare ancora oggi dall’alto del paese.

[6]Le antiche origini dell’insediamento marso risalgono al VI-V secolo avanti Cristo quanto su queste alture esisteva un centro fortificato difeso da una cinta di mura poligonali munita di tre porte di accesso: “Porta Flora” a est, “Porta nord” sul versante omonimo e “porta Campania” ad ovest. Sul finire del I secolo avanti Cristo l’insediamento fortificato divenne municipium romano con il nome di Antinum.

Cimitero ingresso dal paese
Mura megalitiche

La sua configurazione architettonica – un parallelepipedo a base rettangolare con elementi decorativi agli angoli – ricorda la forma di una “urna cineraria” in questo caso possiamo dire comune dove vengono tumulati gli antenati della comunità, come fosse un monumento dedicato alla memoria collettiva civitana.

Dall’alto del paese il cimitero sembra un semplice casolare coperto a falda, mentre dal lato verso la valle del Liri la facciata, orientata a ovest, ci appare come un fortino senza ingressi e con una serie di finestre ad arco poste al secondo piano.

E’ questa la facciata principale dell’urna priva d’ingressi ma munita di due porte murate, a significare “le porte dei morti”, sulla parte bassa della costruzione in corrispondenza dei locali interrati dedicati alla tumulazione delle salme.

Porta murata ingresso dei morti

Al piano superiore le finestre illuminano la galleria dei “vivi” al tramonto quando il sole muore dopo una giornata terrena.

L’ingresso dei ”vivi” è posto sulla facciata ad est verso il paese, illuminato dai primi raggi del sole quando sorge dopo il buio della notte (metafora della resurrezione dopo la morte).

Ingresso al cimitero

Data la morfologia del versante, l’ingresso dei “vivi” immette direttamente alla struttura del cimitero a livello del piano sovrastante quello seminterrato, destinato alla tumulazione; una serie di botole si aprono al pavimento del primo piano che mettono in comunicazione con il locale sottostante.

Questa soluzione prevede quindi un percorso dei “vivi” che si affaccia sulla valle con grandi aperture panoramiche e quello dei “morti” al piano inferiore (il mondo degli inferi per la cultura classica).

Dall’interno della struttura, lungo il lato ad est, si accede a uno stretto corridoio verde chiuso all’interno del muro di cinta, è il “cimitero acattolico”: una sorta di limbo che nella religione cattolica costituisce una condizione di attesa per tutte quelle anime appartenute a persone buone morte prima di essere battezzate. Il “cimitero acattolico” di Civita d’Antino è suddiviso in due aree da una leggera ringhiera (il limbo dei bambini e quello dei giusti) che termina sul muro con una piccola croce di ferro; sulla parete di fondo a quest’area si staglia una grande croce di pietra a testimoniare che anche i giusti non cattolici amici di Civita che riposano in questo luogo possono sperare nella misericordia di Dio e nelle cure dei civitani. In questo luogo sono infatti stati sepolti l’inglese John Heugh morto nel 1893 e sua moglie Mary Ann Symons deceduta nel 1901, come testimoniano la lapide affissa al muro, e l’artista danese Anders Trulson (1874-1911) discepolo di Kristian Zarthmann che fondò a Civita d’Antino un’importante scuola di pittori scandinavi[7], il giovane trovò la morte qui a seguito di una grave malattia, la lapide di bronzo che ne ricorda la morte è opera dell’artista svedese Louiss Nillson.  

[7] Era il 1883 quando il pittore danese Kristian Zarthmann scopre il borgo di Civita e in esso trova oltre che l’incantevole

paesaggio dei monti, della campagna e della cultura contadina abruzzese, lo splendore della luce e del cielo che cercherà sempre di imprimere sulle sue tele. E’ qui che si stabilisce e fonda una scuola di pittura con un numero sempre crescente di allievi, di amici di artisti come Anders Trulson, Carl Mathorne, Knud Sinding e molti altri. La scuola divenne molto famosa tanto che nel 1908 a Copenhagen fu allestita una mostra “Civita d’Antino dei pittori danesi” che esponeva le tele di Zarthmann e dei suoi allievi; il terremoto del 1915 determinò la fine della scuola e del periodo d’oro dei pittori scandinavi a Civita d’Antino.

Con l’evoluzione delle norme relative alla sanità pubblica, sul finire dell’ottocento la struttura cimiteriale di Civita d’Antino fu sottoposta a diversi sopralluoghi ispettivi, risultando comunque sempre idonea alla sepoltura delle salme.

A seguito dell’emanazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie dell’1 agosto 1907 n. 636, la Regia Prefettura di Aquila sollecitò più volte il Comune a dotarsi di una struttura cimiteriale che rispondesse alle nuove norme. Il 4 giugno 1922 il Consiglio Comunale riunitosi in sessione straordinaria, in considerazione delle nuove norme vigenti in materia di sanità pubblica e in virtù del Decreto Legge n. 1704/1921, relativo alla concessione di agevolazioni ai comuni colpiti dal terremoto del 1915 per la realizzazione di opere pubbliche, delibera la costruzione del nuovo cimitero e l’individuazione dell’area su cui sorgerà[8]. Di fatto la vecchia struttura napoleonica fu abbandonata tra il 1939 e il 1940, quando entrò in funzione il nuovo cimitero.

[8] Archivio di Stato dell’Aquila, Sottintendenza e Sottoprefettura Avezzano, Intendenza, serie II, b.165.

Riconoscendo alla struttura il suo valore architettonico e soprattutto storico che va al di là di un interesse puramente locale perché traccia tangibile di un periodo significativo per la storia del nostro Paese ci auguriamo che gli Enti preposti alla tutela e valorizzazione del patrimonio culturale possano trovare le risorse economiche per promuovere un intervento di restauro e ristrutturazione del manufatto che altrimenti sarebbe destinato al suo completo deterioramento.

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Laureatosi in architettura presso l’Università La Sapienza di Roma, ha esercitato la professione di architetto per circa trent’anni, oggi insegna alla Scuola Secondaria di Primo Grado presso l’Istituto Comprensivo GIOVANNI XXIII-VIVENZA di Avezzano. Appassionato di storia recente e di politica, è autore di uno studio sulla Riforma Agraria del Fucino, che si articola in 167 tra capitoli e sottocapitoli, pubblicata sui gruppi Facebook “Ortucchio in parole e immagini” e “Luco, ieri e oggi”.