Avezzano, largo San Bartolomeo – Troppo cielo

Giuseppe Pantaleo
Giuseppe Pantaleo
6 Minuti di lettura
Avezzano, largo San Bartolomeo

Mi tocca scrivere qualcosa sulla sistemazione di largo San Bartolomeo. Parlare di restyling, per me, è come starmene nudo davanti allo specchio e lambiccarmi il cervello per scoprire se mi casca bene una cravatta a righe, gialla, a losanghe o à pois. Ho controllato l’affluenza di persone una dozzina di volte dopo l’inaugurazione (30 ottobre), non nelle ore di buio: è scarsamente frequentato quel posto, come prima ma non è un problema. D’altra parte, non è minimamente cambiata la sua destinazione d’uso, né il paesaggio circostante – è positivo che ci abbiano messo le mani, in ogni modo. Mi è anche capitato di tornarci in seguito con diversi amici – poi lo riprendo.

M’intriga pochissimo la situazione particolare: la ricostruzione post-terremoto ha cancellato completamente il preesistente tessuto urbano conservando solo il perimetro di ciò che oggi chiameremmo centro direzionale. (L’oblio è proseguito nel seguente secolo e passa di urbanistica). Più che negli altri casi presenti ad Avezzano, si può fare ciò che si vuole di quel posto. Trovo perciò ridicolo e sbagliato giustificare qualsiasi intervento, soprattutto fabbricarci una narrazione intorno – identità, Storia, «ripresa» e chincaglieria del genere.

Quella situazione nasce da un’idea del sindaco Antonello Floris (2002-12); era spuntato il desiderio di un’area archeologica, in una città che non ne conteneva. Doveva essere una mera, piccola zona archeologica come altre, mentre prima della sua inaugurazione, l’attuale sindaco ha affermato: «Attorno alla piazza [largo San Bartolomeo], potranno svilupparsi anche nuove attività commerciali e socio-culturali» (MarsicaLive, 28 ottobre 2023).

(Un intermezzo «leggero»). In uno screeenshot dal profilo Facebook del sindaco era scritto mooòlto poeticamèntey, in proposito del downtown agli inizi del Novecento: «Un luogo, nel cuore di Avezzano, dove i cittadini erano soliti vivere la quotidianità, tra la lettura di un giornale, una chiacchiera, un bacio tra innamorati in una panchina». Quattro anni prima del terremoto era analfabeta il 43,1% della popolazione italiana; allo stesso modo – non ricordando male –, bisognerà aspettare i Beatles (nel senso: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band) prima di assistere a baci in pubblico tra innamorati, senza problemi di sorta – tra eterosessuali si capisce. Negli anni Dieci del Novecento, gli «innamorati» erano accompagnati da almeno un loro parente nelle loro passeggiate – la canzone Io, mammeta e tu risale al 1955. Poi: c’erano davvero le panchine in quel paesone ancora di stampo medioevale? (Basta così).

Un simile luogo, nonostante un tale cambiamento, è stato finora evitato nelle celebrazioni ufficiali del 13 gennaio – trattai la questione nel 2014 e poi nel 2016…

Com’è andata a finire con gli amici? Il restyling non piace, in genere; io ho provato a capire il perché. (Qualcuno ha notato e apprezzato – come me – la trasformazione a zona riservata ai pedoni dell’intero largo). Ho scoperto subito che c’entrava di mezzo l’eliminazione di vecchi alberi, che davano una sensazione di pieno, ma i vegetali hanno poco a che fare con la pratica architettonica. Portavo gli amici al centro dell’intervento, anche sul mattonato del marciapiede (via E. Lolli), in mezzo a una vasta area vuota, leggermente desolata in questo autunno – lo sguardo raggiungeva comodamente via Muzio Febonio da un lato e quasi via Vezzia dall’altro. (Dovrebbe vedersi senz’altro meno cielo in una città italiana). Ecco, da lì io facevo partire un confronto con l’esperienza degli spazi cittadini – non sono granché quelli del capoluogo marsicano, come dovrebbe esser noto a chi ha un briciolo di conoscenza di città italiane o europee; beh, c’era una bella differenza con alcuni tratti delle vie centrali (via G. Garibaldi, via C. Corradini, corso della Libertà, eccetera), anche con l’ampia piazza del Risorgimento. Si tratta di avere intorno delle facciate continue racchiudenti uno spazio. Erano perciò necessarie costruzioni a due piani – secondo il regolamento dell’epoca, attaccate le une alle altre – almeno su via Lolli, fin dai primi anni della ricostruzione; andavano sistemate in modo migliore le case di quel largo. Da lì, qualcuno ha parlato di una sorta di frattura tra la nuova pavimentazione e le vecchie case popolari: le seconde sembrano residenze di poveracci – di là della loro tinteggiatura; per non citare il «murales» – quello con l’orario sbagliato del terremoto del 1915. Le costruzioni a contatto con i mattoncini sembravano a qualche altro addirittura più basse. In compenso, nessuno ha benaltrato – era facilissimo citare almeno uno dei problemi che attanaglia, da decenni, il resto dell’enorme periferia –, qualcuno ha aggiunto l’annoso stato di abbandono della vicina ex Casa di riposo San Giuseppe; io ho ricordato che per quella zona battei (con un’Olivetti!) un esposto anche per «una perizia sulla ex Casa del Contadino in Via Vidimari (dietro l’Unità Locale Sociosanitaria) che determini se l’edificio sia lesionato nelle sue strutture portanti in modo tale da rendere indispensabile la sua demolizione» (6 dicembre 1983). Le due vicende di quel periodo finirono all’italiana: nell’area del mercato coperto – da poco abbattuto – non fu realizzato un parcheggio (piazza B. Corbi), mentre quella costruzione fu demolita e divenne un’area per le automobili (piazza dei Martiri di Capistrello).

Condividi questo articolo
Lavoro come illustratore e grafico; ho scritto finora una quindicina di libri bizzarri riguardanti Avezzano (AQ). Il web è dal 2006, per me, una sorta di magazzino e di laboratorio per le mie pubblicazioni.