Una recensione acida del testo di Maria Nicolai Paynter, vincitore del premio Silone 2018

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
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Nel trattare del libro di Maria Nicolai Paynter, «Ignazio Silone e Marcel Fleischmann. Amicizia e Libertà» (Casa editrice Carabba srl, Lanciano, 2018), chi modestamente scrive non intende in alcun modo chiamarsi fuori dalla decisione della giuria del premio Silone – della quale facevo immeritatamente parte – né, a posteriori, contestarne l’esito, e quindi l’attribuzione del riconoscimento all’autrice di cotanta opera. Solo, senza rivelare nulla di men che corretto in ordine alla formazione del convincimento della decisione di un organismo collegiale quale una giuria, credo utile analizzare – pur nella pochezza delle argomentazioni mie proprie – alcuni aspetti di questo lavoro della professoressa Paynter (emerita of Italian Studies presso l’Hunter College della City University of New York) che sono rivelatori, ai miei occhi, del più complessivo stato degli studi siloniani e di tutta una più generale crisi del meccanismo istituzional-regional-paesano chiamato a valorizzare opera e messaggio di Silone in terra d’Abruzzo.

Premessa doverosa: quelle riportate nel testo della Paynter sono quasi duecento lettere e comunicazioni scritte, di diversa natura, intercorse, in oltre quarant’anni di rapporti, tra Ignazio Silone e Marcel Fleischmann, il ricco commerciante che agli inizi degli anni Trenta diede, ad un Secondino Tranquilli sostanzialmente privo di mezzi, un’abitazione presso la sua magione di Zurigo, la Kleine Pension, ove Silone dimorò sino al momento del suo ritorno in patria, nell’inverno del 1944 (magione che, per quel che pare di comprendere, Silone rimpiangerà più volte, a Roma; non solo dagli alberghi in cui alloggiò all’atto del suo rientro in Italia ma anche dalla storica abitazione di via di Villa Ricotti, a piazza Bologna). Ci troviamo quindi dinanzi a dei testi di Silone (e di Fleischmann, nonché delle rispettive mogli e compagne, all’unisono) che sarebbe follia considerare del tutto irrilevanti o snobbare. I passaggi sul 13 gennaio – data infausta per Silone e la Marsica tutta ma che era quella di nascita di Fleischmann, il suo benefattore – o altri, di vago sapore flaianesco, sulla confusione regnante in Roma nell’immediato dopoguerra o negli anni Sessanta, risultano assai interessanti, e sarebbe ben strano pensare e sostenere il contrario. Di simili personaggi risulterebbero interessanti persino gli elenchi della spesa!

Però, quel che non convince di questo prodotto fagocita di gran lunga le cose che si fanno apprezzare.

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Per prima cosa, i refusi, il cui numero eguaglia quelli presenti in tutte le quindici annate de “Il Martello del Fucino”. Una cosa che dà all’occhio (e piange il cuore ad associare il tutto allo storico e sacro nome di Carabba), al punto che un giurato mi ha eccepito che nella valutazione andava tenuto conto della edizione inglese del testo, e non di quella italiana. Lancinante quello ove si tratta del fratello di Silone, Romolo, «che morì il 27 ottobre 1832» (pagina 385). In una sola nota di pagina 261 ce ne sono addirittura due. Altro autorevole giurato, venuto già con le idee abbastanza definite su chi dovesse vincere, mi ha giustamente eccepito che non esiste libro senza refuso, ed effettivamente è così: non avrebbe molto senso dunque soffermarsi oltre su simili aspetti (o sulla sicuramente erronea collocazione temporale della lettera contrassegnata con il n. 172, originata da un lapsus calami) e passiamo direttamente all’apparato critico e di note a corredo all’epistolario.

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Questa corrispondenza, ci si spiega, è quella originariamente prodotta e detenuta da Marcel Fleischmann, meritoriamente scovata presso i suoi eredi e poi donata a Pescina e depositata presso il locale Centro studi. Per chi è appassionato al tema della problematicità (impossibilità) di fruire delle traduzioni, qui si è in presenza di un caso di scuola: lettere scritte in lingua francese (lato Silone) e in tedesco (lato Fleischmann) sono state tradotte tutte in inglese e quindi, l’intero testo inglese così ottenuto è stato versato in italiano. [Inciso, e sia detto bonariamente: annunziando questo testo sulla corrispondenza Silone-Fleischmann, la Paynter, nel 2012, fu insignita del premio Fontamara (un riconoscimento nell’ambito del premio Silone); nel 2018 per lo stesso testo ottiene il premio principale; considerando che quasi trent’anni fa ella conseguì il riconoscimento di altra sezione dello stesso premio, quella dedicata alle tesi di laurea, ora alla professoressa Paynter – ho fatto notare – manca solo di iscriversi al locale istituto comprensivo di Pescina – che si chiama, manco a dirlo, ‘Fontamara’ – e tentare di vincere la sezione dedicata ai temi dei ragazzi, per far l’en plein. O forse no, ché ora hanno creato anche la sezione del Silone digitale]. Non sapremmo dire molto su quanto si sia riusciti a rendere con fedeltà gli originali (ed assumiamo che essa sia buona) e, alla fine della fiera, anche sulle scelte operate in materia di normazione di testi così dissimili (nota editoriale, pagina 12) non ci sentiamo di esprimere un giudizio, ravvisando il tutto ragionevole, per quanto non troppo tecnicamente elaborato. Quel che ci saremmo aspettati, visto che ci si è messe le mani, era un lavoro tra i tre diversi corpus della stessa corrispondenza, onde comprendere e attestare la presenza o l’assenza dei singoli documenti trascritti nelle tre diverse unità: a) originale della corrispondenza tra Silone e Fleischmann per come posseduta da quest’ultimo e presente attualmente a Pescina; b) originale della corrispondenza tra Silone e Fleischmann per come posseduta da Silone e detenuta in originale a Firenze dalla Fondazione Turati; c) copia dell’originale della corrispondenza tra Silone e Fleischmann per come posseduta da Silone attualmente presente al Centro studi di Pescina. Non è una sciarada.

Non che il raffronto non sia stato condotto dalla professoressa Paynter, che infatti completa l’epistolario narrandoci il contenuto di tre comunicazioni intercorse tra Silone e Fleischmann presenti unicamente nel fondo che si trova alla Fondazione Turati di Firenze (sola descrizione del contenuto giacché, Dio solo sa il perché, ci dice la Paynter, «il suo presidente, Dott. Maurizio degl’Innocenti, le ha gentilmente condivise con me, ma non ha potuto darmi l’autorizzazione alla pubblicazione» – pagina 375 del testo); solo che un tale raffronto avrebbe consentito a chi studierà dopo di approfondire nelle sedi proprie, di andare a verificare (dove si può accedere ai fondi), esaminare; sotto tale profilo, il regesto delle lettere della corrispondenza complessiva di Silone che in copia sono al Centro studi di Pescina, per come attualmente presente sul poco performante sito internet del Centro studi, non consente una simile operazione (fidiamo nel layout conclusivo di tale regesto, che dopo moltissimi anni di predisposizione verrà presentato in dicembre, a Pescina, purtroppo alla presenza di Aldo Forbice e Alberto Vacca: roba da rimanere alla larga, fisicamente). Qui si aprirebbe tutta la questione dell’archivio, degli archivi di Silone, sulla quale però l’Autrice del testo oggi esaminato ha ben poca responsabilità e sulla quale glissiamo, non senza chiosare che lo stato comatoso degli studi su Silone – una figura veramente pop e postmoderna, come ha dimostrato la recente vicenda del murale di Aielli con l’intera trascrizione del romanzo ‘Fontamara’ – è il risultato anche della gestione del suo patrimonio di archivio, e della deriva commendatizia e familistica della sua eredità (intesa quale memoria), circostanza della quale anche il libro della Paynter reca ampie tracce (infiniti sono i ringraziamenti per le singole immagini pubblicate, una cosa francamente avvilente e paesana, soprattutto in ragione della scarsa qualità di stampa dell’apparato iconografico, dinanzi al quale le foto ciclostilate del già citato ‘Martello del Fucino’ reggono tranquillamente botta: con la differenza che il Martello, per quante insulsaggini possa contenere, è gratuito mentre il libro della Paynter è acquisibile, con molta difficoltà, a titolo decisamente oneroso), in un continuo scambio di complimenti con i propri sodali che oltre Carsoli e Cocullo risulta francamente stucchevole, oltre che incomprensibile, in tal guisa e misura.

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Archivio. Nel disporne, nel testamento, nell’anno 1970, Silone ci tenne a puntualizzare quanto segue: «[…] sono decisamente contrario alla pubblicazione di lettere aventi un carattere puramente personale, tanto di quelle da me ricevute, quanto di quelle da me scritte […]». La domanda è: quante delle lettere pubblicate dalla professoressa Paynter in questo epistolario rientrano in quel novero delle missive puramente personali? Non tutto quello che si conserva è destinato alla pubblicazione – e la prova è costituita dallo stesso atteggiamento di Silone, che poco prima di scrivere il passo su riportato dava atto che il suo archivio (che ricomprende una corposa parte di corrispondenza con singole personalità della cultura) fosse stato appena riordinato –. Spero che un giorno, nell’improbabile ipotesi qualcuno dovesse azzardarsi a scrivere una storia del ‘Martello del Fucino’, costui non parta dalle ricevute per l’acquisto della carta e dell’inchiostro per il ciclostile, che pure vengono conservate in località Petogna! Ma che certi documenti non abbiano dignità di pubblicazione o non sia di rilievo di per loro, autonomamente, non implica che non siano interessanti in assoluto. Utili a ricostruire un contesto.

Qualche dubbio al riguardo è sorto anche alla professoressa Paynter, che nella prefazione ha scritto:

[…] La corrispondenza qui pubblicata per la prima volta copre gli anni dal 1934 al 1976 ed è per la maggior parte di carattere personale. Per questo, non presenta tante informazioni storiche come ci si sarebbe potuto sperare (soprattutto per quanto riguarda i primi dieci anni) […].

Certo, carattere personale non significa puramente personale cosicché la Paynter si dichiara convinta che l’operazione era comunque da farsi. Forse sì (ma non per gli argomenti da ella addotti), ma è stupefacente che dei siloniani di ferro (dicesi: la formidabile autoreferenziale centuria degli zelatori siloniani) cerchino Silone dove Silone non può esserci, o dare loro la minima soddisfazione. Si apprezzi questo passaggio, che da solo vale – e dice di più di – una ventina di biografie sul Nostro: «Sarei di certo felice di passare qualche giorno, in un posto tranquillo, con lei. Sono sinceramente sicuro che dopo poche ore cominceremo a stare in silenzio e a scambiare monosillabi; questo è, per me, il più alto livello cui possa arrivare un’amicizia» (Silone a Fleischmann, 4 febbraio 1937). A volte, sembra che proprio non lo conoscano, Silone.

Ma dopo che Adelphi è riuscita a pubblicare una corrispondenza tra Gadda e Parise come quella data alle stampe nel 2015, nulla è più precluso, e dunque andiamo avanti.

Con tutte le mende che è possibile rilevare nella corrispondenza tra gli appena citati Gadda e Parise, in quel testo (ai due scrittori direttamente intestato, in catalogo: incredibile quasi a raccontarsi), a corredo (ed è un signor corredo), non figurano le biografie dei due autori. Giustamente, perché sono scrittori molto conosciuti, dei quali si indaga il rapporto tra loro intercorso, non i decenni della loro esistenza precedente e successiva, se non per quel che può interessare direttamente in quella particolare analisi. Si tratta ogni volta di abbracciare lo studio di una scheggia di passato, non di mettere mano, positivisticamente, alla storia universale in dodici volumi. Solo per Silone – ed è una vera iattura, da sempre – chiunque ne scriva ricomincia ab imis, ripercorrendo ogni volta l’intero percorso biografico e delle opere (chi vuole infierire, ed è il caso presente, anche quello della critica). Non sfugge a questa logica la professoressa Paynter, che ci pregia di una non fondamentale cronologia (pagine 20-35) che merita qualche parola.

Come per tutte le biografie siloniane, i luoghi comuni non mancano, ripetuti per decenni e ormai inestinguibili. Dopo che finalmente, compulsando il foglio di famiglia all’anagrafe, è passata tra i dati finalmente acquisiti la composizione della famiglia di Silone, per altri versanti – a loro modo rivelatori di un certo milieu di appassionati del genere – c’è ancora molto da lavorare:

1915, 13 gennaio. Un forte terremoto devasta la Marsica. Solo 1500 dei circa 5000 abitanti di Pescina sopravvivono (ISRS, xliv). La madre di Silone è tra le vittime. Romolo Tranquilli viene ritrovato vivo dopo cinque giorni. Secondino e Romolo vengono affidati alla nonna materna Maria Vincenza Del Grosso.

Fatto salvo – che non è il momento – l’affidamento (il passaggio dei ragazzi per gli istituti di Roma e Chieti, ecc.), rimane un mistero di come, a cento anni dal terremoto si possa affermare che a Pescina perirono i due terzi della popolazione. La Paynter lo ha letto dal lavoro di Falcetto (ISRS significa questo) per i Meridiani Mondadori e di lì lo ha citato ma ciò non toglie che esso sia un dato errato: dai mesi immediatamente successivi alla catastrofe, con il censimento operato dalle autorità, nome per nome, sappiamo che Pescina centro (con la frazione Venere) lamentò un quarto di deceduti tra i suoi abitanti e i tre quarti fortunatamente sopravvissero; la frazione di San Benedetto dei Marsi, 2289 morti su oltre quattromila residenti. Dato terribile quanto pacifico, da sempre, che non avrebbe certo bisogno di ulteriori aggiustamenti di sale. Chi mette dunque in giro queste notizie che vorrebbero rendere, se possibile, ancor più catastrofica la catastrofe? E perché? Sarà forse un dettaglio poco importante: potrebbe però essere la cartina di tornasole di quella strana tendenza invalsa, nella ricostruzione della storia della contrada («povera di storia civile», la definiva non a caso Silone, in Uscita di sicurezza), all’interpolazione, alla semplificazione, all’invenzione tout-court. Ma forse – deve essere la trascorsa presidenza del comitato locale costituito per la ricorrenza del centenario del sisma – sto soltanto esagerando. Certo, con tale vezzo, pure su Silone molte cose indimostrate e indimostrabili si sono, nel tempo, stratificate, sino a costituire una spessa coltre impedente lo scavo e il ripristino dei fatti.

Nella medesima biografia è ricompreso il seguente cenno, all’anno 1930, testuale:

13 aprile. In una lettera pubblicata da Dario Biocca e Mauro Canali, Silone scrive a Bellone per comunicargli la sua decisione di interrompere il loro rapporto. La lettera è scritta a mano, non reca un destinatario ed è firmata “Silvestri”

Anche qui, si resta basiti per la poca accuratezza nella formulazione del testo, per un fatto di tale importanza. A prescindere da chi l’abbia trovata e divulgata, quella lettera è collocata in un fondo di archivio, afferente la Divisione polizia politica della Pubblica Sicurezza: ovvero il fascicolo personale di Secondino Tranquilli: non parrebbe un dato irrilevante. La lettera è scritta a mano, sì, e la scrittura è di Silone! (per non parlare dello stile, dei toni, ecc.: negare che questa missiva sia stata materialmente scritta e intellettivamente concepita, sin nelle scorciatoie e negli espedienti, da Silone, è malafede allo stato puro). Mandata così, come scrive la Paynter – soprattutto in costanza di diversi creduloni (veri e di comodo) che ritengono si possa andare all’Archivio Centrale dello Stato e fare delle pastette con le carte, in barba ai protocolli e ai riferimenti (forse perché loro sono abituati a fare così) –, l’effetto, non sappiamo quanto voluto e ricercato, temiamo sia quello di indirettamente rinfocolare quel sentimento del quale tra poco tratteremo, di sospetto del grande complotto contro il Nostro, le cui fila sarebbero tirate non sappiamo bene da quale centrale demoplutogiudaicomassonica, impersonificata essenzialmente dal professor Mauro Canali. Dicesi meglio: se la lettera è di Biocca e Canali, ignorando Biocca e Canali (non siamo d’altronde nell’epoca di uno vale uno?) si può continuare tranquillamente come prima…

Mi verrebbe da chiedere: in altro fondo della Polizia, vi è un autografo chilometrico di Silone, dell’anno 1923, di decine di pagine: perché nella biografia non c’è?

In ogni modo, rimane da comprendere come si possa, da un lato, far intendere, seppur nel modo sopra descritto, che quella lettera del 1930, essendo nella cronologia, concerna la vicenda umana di Silone, e quindi assumere che sia quantomeno da valutarsi, per quel che l’espressione in italiano significa, quel riferimento di Silone al «lungo periodo di rapporti leali» intercorsi con il commissario Bellone (che non era un passante: fu colui che per primo resse, all’atto della sua creazione, nel 1926, la Polizia politica; cosicché tutte quelle elucubrazioni sul doppiogioco di Silone nel [lungo] corso del quale quest’ultimo avrebbe messo nel sacco il Bellone, oltre che indimostrate, suonano piuttosto irragionevoli, quando non decisamente offensive dell’intelligenza di chi legge e ascolta) e poi scrivere che il sito www.amici-silone.net – il più negazionista su tale rapporto, sin alle soglie se non oltre, del terrapiattismo – «sia essenziale per ogni informazione su Silone» (pagina 406) per poi attestarsi sulla opinione, al riguardo, di Franzinelli (meglio mi sento) e infine barricarsi dietro alle parole criptiche pronunziate al riguardo dalla vedova Silone (che pure ‘spia’ pare sia stata, per quanto di governi di popoli liberi) che rimandavano alla impenetrabilità del carattere di suo marito e più in generale a quella dei fatti umani (quindi: forse sì; ma non sì. E neppure certamente no; ma può essere di no).

Diverse pagine andrebbero vergate – e forse da persona più competente della mia povera figura – su quel documento della categoria H2 (“Attentati”) del fondo del Ministero dell’Interno che viene citato a pagina 77, sul previsto incontro tra Silone e Bellone immediatamente dopo la strage alla fiera campionaria di Milano. Anche qui manca totalmente la fonte, ovvero dove questo appunto possa essere reperito da chi è interessato a leggerlo (si informa Mussolini della circostanza; non il direttore del ‘Martello’ o il fornaio di Sperone). La spiegazione di tale mancato incontro pure non è propria ma mutuata dal cattivissimo e bestemmiatissimo testo di Biocca-Canali del 2000. And so on.

Sui documenti di archivio della polizia, e su tutta la querelle della collaborazione di Silone con essa (quale “fiduciario”, non “informatore”: si apprezzerà la differenza che intercorre tra i due termini), la professoressa è da fare decisamente rivedibile. Da come scrive e dall’apparato di note, dubitiamo fortemente che la Paynter sia mai andata a Roma a compulsarle, quelle carte, usmare i repertori, guardare i fondi. Non costituisce un particolare di secondaria importanza, quella storia, per lo studio di Silone. Non ci si dovrebbe limitare a dar retta agli emissari del professor Tamburrano.

Senza dubbio più apprezzabili i cenni sulla vita – e l’attività legata alle opere d’arte acquisite – di Marcel Fleischmann (ma anche qui: mettendoci le mani…).

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La questione alla fine si riduce a quel che la professoressa Paynter si è proposta di fare, con la pubblicazione di quest’epistolario ovvero da «contrappeso alle rappresentazioni negative fatte da Silone negli anni recenti» (pagina 379). Sì, perché, bontà sua, «a prescindere dalla legittima controversia su Silone quale informatore dei fascisti» [ma quanta improprietà di linguaggio!] per Silone, ci informa la professoressa, «c’è una deprecabile tendenza a dipingere negativamente la sua figura come persona, senza limitarsi alla sua vita pubblica» (pagina 61).

Ovvio che se ci sono in giro dei cattivi, che hanno in animo di distruggere Silone (ma potrà mai essere?), debbano esserci anche dei buoni, chiamati ad invigilare sul santino. E non è difficile immaginare chi siano. Una parrocchietta della quale la professoressa Paynter è membro emerito.

Un simile atteggiamento, di sindrome d’assedio, ha portato, nel tempo (quasi un quarto di secolo: perso così!), al reclutamento di chiunque negasse le palmari evidenze di archivio sul rapporto Silone-Polizia, e l’allontanamento di tutti gli altri, con grave nocumento per l’approfondimento scientifico sulla figura di Silone, la cui immagine imbellettata, spacciata da chi pretenderebbe di tutelarne l’onorabilità in base a esigenze moralistiche poco comprensibili (tradotto: fisime), fa ormai francamente paura. Una testimonianza di questo atteggiamento parossistico si ritrova nella chiosa che nella introduzione – prima dunque che si legga l’epistolario – fa la Paynter: su Silone

«Ci sono state voci infondate riguardo a un temperamento instabile, a una personalità scissa, a una sospetta impotenza o omosessualità. Gli istinti voyeuristici e omofobici di alcuni lettori potrebbero trovare qualche soddisfazione in alcune delle lettere che ora leggono. Per esempio in una di queste Fleischmann scrive che, in assenza del suo amico, va a portare dei fiori nella sua stanza […]» (pagina 61).

Ma soddisfazione di cosa?

Ora, un simile passaggio, diretto probabilmente a confutare una visione romanzata del Nostro elucubrata da Renzo Paris, a noi ha riportato indietro nel tempo, e precisamente alla famosa visita per la leva militare che quelli della nostra età hanno sostenuto, qualche lustro fa. Ricordo che costituiva un vero e proprio incubo la prima domanda dei test psicologici, che testualmente recitava: “Ti piacciono i fiori?”. Rispondendo di no, si sospettava si sarebbe fornita la stura di pensare si fosse chiusi e insensibili, e quindi problematici; barrando il sì, fondato era il timore di finire egualmente davanti allo psicologo di viale delle Milizie che avrebbe indagato su chissà quali repressioni e tendenze. Ecco, questo è il livello.

Chi scrive, che ovviamente ha letto prima l’epistolario e poi, piuttosto a malincuore, quel che c’è intorno, a quel passaggio di Fleischmann sui fiori, pur essendo originario di un paese reazionario di costumi nonché ontologicamente tendenzialmente e mentalmente profilato per vivere negli spazi angusti e promiscui di una baracca terremotata, non si è neppure sognato di fare l’associazione temuta dalla Paynter, sebbene abbia letto due volte (masochismo) e modestamente recensito quel (non memorabile) romanzo di Paris. Occorre essere veramente dei provinciali, per non comprendere che l’ospitalità svizzera di un mecenate potesse e possa estrinsecarsi anche con dei fiori, senza che ciò implichi altro se non… un tavolo addobbato con dei fiori! Fiori. F-i-o-r-i. Ma dove siamo?Ma da dove venite? Da quale fenditura spazio-temporale uscite? Di quale recesso di pensiero degli anni Cinquanta siete portatori?

Piuttosto, in questa maniacale e claustrofobica visione padronal-parental-confessional-sessuofobica di Silone, dovessimo proprio scegliere un altro passaggio, uno di quelli che potrebbero supportare le remore della Paynter e, insieme, l’argomento dell’inopportunità di riprodurre lettere a pioggia, punteremmo su questo: scrive Silone a Fleischmann (15 febbraio 1955):

«[…] il nostro appartamento è disponibile senza alcuna difficoltà. Se per caso anche io fossi fuori Roma, deve sapere che l’appartamento ha due camere da letto: una di esse, è quella di Darina con un solo letto, l’altra con due letti […]»

che al sottoscritto ha acceso quell’arrière-pensée che da anni nutro (non da solo, e non in buona compagnia), ovvero che quello tra Silone e Elisabeth Darina Laracy sia stato un matrimonio rato ma non consumato. Ma solo per un attimo, perché sarebbe da provinciali non considerare che delle coppie sposate e cosmopolite possano dormire in letti diversi, persino nella stessa stanza, o in stanze diverse (per il russare; o per evitare di sentire il traffico di viale XXI Aprile; o che ne so, forse non ci deve interessare). Non insegno a New York, eppure mi sono vergognato di aver pensato ciò. Tiro dritto perché si rischia di far notte, ed anche per non toccare il tasto della tendenza agiografica, della quale il testo è totalmente impregnato, e che si manifesta in quasi ogni pagina, nei riguardi di Elizabeth Darina Laracy. I siloniani di ferro, a volte, sembra che proprio non la conoscano, la vedova Silone. O mostrano di. Voglio sperare.

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Come forse si sarà compreso da tutto quel che sopra è (si spera, degnamente e comprensibilmente) argomentato, e per molti altri passaggi dei quali faccio vènia al malcapitato lettore, non sono convinto che aver conferito il premio Silone alla professoressa Paynter sia stata una buona idea, e non solo per il valore del lavoro (che va ad ingrossare un intero scaffale di testi infungibili, non citabili in sede scientifica, contigui a quelli su padre Pio – Sergio Luzzatto escluso – e a certa patristica più antica), essendo il premio concepito non per chi chiude saggi su Silone ma per le personalità che incarnino gli ideali di. Ma qui il discorso si fa(rebbe) veramente troppo lungo.

Affronteremo prossimamente il tema della nave istituzional-paesana che cura la memoria di Silone; entità alla quale, temiamo, come recitava un grande autore classico, nessun vento possa più tornare utile, avendo essa smarrito la cognizione di dove dovrebbe dirigersi.

Sempre a mio-nostro modesto avviso, e con rispetto parlando.

Ballo della Pupazza - Pescina, 2016
Ballo della Pupazza – Pescina, 2016

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