Un simbolo non si calpesta: il futuro della torre di Pescina

Redazione
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Nel corso degli anni (e in particolare nell’ultimo decennio, sulla scorta dei diversi accadimenti / fisico-naturali, economici e [quindi] morali / succedutisi su questa porzione di Appennini) abbiamo maturato la convinzione che quel che in astratto potrebbe costituire, come spesso in effetti costituisce, un combusto di forza atto a fornire armi e strumenti per le battaglie del futuro – dicesi: le tradizioni; l’orgoglio dell’appartenenza; e via via tutta la filiera del nec sine nec contra… – può, in seno alle collettività in oggettiva decadenza e sprovviste, come dello iodio, dei giusti anticorpi, nei fatti, trasformarsi nel suo esatto contrario, ovvero in un esiziale terreno di coltura dell’entropia, sino a sviluppare quell’endemico sordo e ostinato sentimento di rifiuto della modernità (modernità che non è evidentemente da equivocarsi con il telefonino) che ammiriamo nella opinione pubblica derelitta degli Abruzzi montani.

Cosicché, essendo questo processo di ‘carbonatazione sociale’ molto grave, e presente, ed ingravescente; quale reazione a quelle che magistralmente il professor Costantino Felice, subito dopo il sisma aquilano del 2009, rubricava come le trappole dell’identità, nel tempo ci sono progressivamente venuti in uggia alcuni simboli e figure retoriche che di questo processo di regressione sono loro malgrado il fomite (idealtipo: il lago Fucino quale luogo di delizia, primizie e stupore simil-vacanziero; il brigante eroe romantico; la frugalità del contadino dei bei tempi andati; ecc.) e a considerare con sospetto molti di loro, se non altro perché sottoposti ad un utilizzo deteriore (il vergognoso fenomeno della Storia di volta in volta e di bocca in bocca inventata, rammassata, interpolata, banalizzata, imbellettata, subornata): utilizzo tanto più straccione quanto meno delle vicende si conosce, e che dall’ignoranza trae il suo proprio humus; e che solo nell’ignoranza può prosperare.

Ciò fumosamente ma doverosamente premesso, veniamo alla questione.

Il mondo, come recitava il poeta maledetto, è e rimane una foresta di simboli, e ad alcuni di essi occorre annettere rilievo, importanza, ed averne cura collettiva. Tra questi è certamente da annoverarsi la torre di Pescina, che più propriamente è una porzione di un lato di quel che nel medioevo fu un castello. Torre che costituisce il manufatto con il quale la comunità, nel frattempo attestatasi su un costone sottostante a quella montagna sul fiume Giovenco e, infine, dopo il grande terremoto del 1915, oltre il borgo nuovo, scesa in una zona di vigne sottostante, verso il piano, continua ad identificarsi e viene identificata.

In una campagna elettorale di questo decennio, volarono parole grosse stigmatizzanti l’oscurità notturna nella quale quella torre era precipitata, per la difficoltà (oggettiva) che si riscontrava di riparare l’impianto di illuminazione di quel sito; e qualche mese dopo sentita e unanime fu la soddisfazione di vedere nuovamente il caratteristico prospetto della torre in notturna (e non soltanto stilizzato nei locali di una nota pasticceria, nelle lunghe sere invernali), rischiarato nei diversi colori pop che ancora oggi ce la mostrano di lontano.

Sempre considerando la natura eminentemente simbolica della torre, tornando un poco più indietro nel tempo, con una reverenza che non fu usata ad altri siti del centro storico, notevole fu il manifesto che il sindaco Pompeo De Giorgio, nell’anno 1956 (torno di tempo cruciale nel destino di questi luoghi) diffuse, per «sentire il pensiero dei cittadini nel caso che si voglia tentare qualche azione per cercare di salvare l’unico ricordo storico dell’antica “cittadella” di Pescina», stante che la torre, pericolante, doveva essere demolita. Alla fine non andò così, ad onta dello scarso esito che l’accorata richiesta dell’allora sindaco – almeno a giudicare dal fascicolo presente in archivio comunale – incontrò nella popolazione. Un miracolo, in un’epoca dove, come detto, il riguardo appena sopra mostrato era inusuale, con quel Genio civile allora operante, e stante la moderata sensibilità collettiva dell’epoca per le vestigia del passato. Ancor più notevole, l’esito, se si considera che si era, in quel frangente, immersi nella temperie di quelle ultime manifestazioni e fenomeni del processo di delocalizzazione del nostro paese magistralmente illustrati, in occasione della ricorrenza del centenario, dal dottor Fabrizio Galadini (Ingv). Discreta, se non pura, fortuna, per chi non si sentisse di scomodare i miracoli.

Da quell’epoca, la questione della torre è stata quella della sua resistenza agli agenti del tempo, e all’azione dei più svariati fattori accidentali (es.: il guano degli uccelli che ne colmò l’interno).

Vengono dunque a proposito i fondi del tanto bestemmiato Masterplan (che speriamo, nel caso di specie, resistano in questa destinazione / e chissà che non si versi nella tipica condizione fontamarese, di disputare cioè su cose che alla fine non si avranno) con i quali, è di questi giorni l’annuncio dell’amministrazione comunale, verrà messa mano, tra le altre cose, a questo monumento. Testo di comunicato stampa del municipio di Pescina, 14 ottobre 2018.

Oggetto: Comunicato stampa in merito ai lavori nel Centro storico finanziati dal Masterplan.

L’Amministrazione Comunale comunica che, nelle scorse settimane, è stato approvato il progetto esecutivo volto alla realizzazione di un Parco Letterario incentrato sui personaggi illustri della nostra Terra ed il completamento dell’opera di restauro della Casa natia di I. Silone. Un’opera finanziata dalla Regione Abruzzo con le risorse del Masterplan che prevede, nello specifico, diversi interventi tra loro collegati.

Il più importante è, senza alcun dubbio, rappresentato dai lavori relativi alla Torre Piccolomini, simbolo identitario della Città, attraverso i quali verrà consolidata e restaurata l’intera struttura, con il recupero degli elementi artistici presenti. Oltre a ciò, verrà installata una passerella sopraelevata che, passando all’interno della Torre, salirà fino all’orlo sommitale dove verrà collocata una terrazza panoramica per offrire a visitatori e turisti un affaccio privilegiato verso la vallata e la piana del Fucino.

Con l’obiettivo di ampliare gli spazi di fruibilità del Centro Storico, verrà realizzato anche un sentiero che unisce la Torre restaurata con il vecchio Campanile di San Berardo, ai piedi del quale è sepolto lo scrittore Ignazio Silone. Per la realizzazione di tale sentiero verrà ripulito, dalla fitta vegetazione, un vecchio tracciato; verrà consolidato il percorso e verranno recuperati dei muretti di sostegno in pietra a secco presenti nell’area. Inoltre, verranno installate delle recinsioni laterali per permettere il transito in sicurezza e facilitare la discesa (o l’ascesa) con l’ausilio di un passamano. Nei tratti più impervi, invece, verranno posizionate delle agevoli scalinate.

Scendendo più a valle, nel cuore del Centro Storico, sono previsti interventi per il completamento del restauro della Casa natia di Ignazio Silone. Per il suddetto restauro è già stata espletata una specifica procedura di gara della quale attendiamo, a giorni, l’esito del T.A.R. dell’Aquila che permetterà l’avvio dei lavori volti alla riqualificazione esterna dell’edificio fino all’imbocco con il fiume Giovenco, sotto la loggetta del Cardinale Mazzarino.

Come ogni itinerario letterario che si rispetti, appena fuori il Centro storico, in Piazza Mazzarino, verrà collocato un portale, la cui forma evocherà la Torre, con le indicazioni delle principali attrattive. Lungo i vari percorsi verranno posizionati, a ridosso delle principali emergenze architettoniche, dei totem informativi e dei leggii.

In ultimo, le soluzioni illuminotecniche lungo il sentiero e all’interno e all’esterno della Casa natia di I. Silone e della Torre Piccolomini contribuiranno a rendere ancora più belli e suggestivi questi luoghi.

Alla luce degli interventi sinteticamente descritti, riteniamo tale opera, per la quale abbiamo lavorato in questi mesi, strategica per potenziare l’attrattività turistica della Città di Pescina. Auspichiamo, dunque, che nell’iter di conversione parlamentare del Decreto-Genova venga modificata la parte relativa al prelievo di 200 milioni sui fondi del Masterplan, nel quale detto intervento trova copertura finanziaria. Nella speranza che ciò avvenga, l’Ente procederà secondo le tempistiche dettate dal cronoprogramma sottoscritto con la Regione.

L’Amministrazione Comunale

La questione è – con il dovuto rispetto per tutti gli attori della vicenda: e per primo verso chi si è industriato ad attrarre e farci intestare questi danari – sino a che punto questo progetto possa ascriversi, come pure si pretenderebbe con il (giusto) richiamo al parco letterario, ad un disegno complessivo coerente, di insieme, idoneo a garantire ed apportare il massimo beneficio culturale per la collettività. Si noti, sul punto, che lo scopo di questo intervento del Masterplan è la «realizzazione di un parco letterario e messa a sistema delle principali emergenze architettoniche e culturali della città di Pescina». Messa a sistema.

Noi siamo stati sempre dell’opinione – modesta, come tutte le nostre opinioni, e poco supportata da conoscenze tecniche particolari (ma spesso il meglio della sola tecnica è nemico del bene della visione complessiva) – che il sito della antica Pescina dovesse e debba essere trattato il meno possibile, al limite solo per ipostatizzarne la condizione e scongiurarne l’ulteriore rovina. Ci siamo spinti, sempre laicamente e pronti a ravvederci dinanzi al pregio di altre argomentazioni, ad esprimerci contro l’ipotesi che venga riedificata la chiesa di San Berardo (si veda al riguardo: Il castello del Kaiser, in «Il Martello del Fucino», a. VI, n. 2). In occasione (persa) del centenario del 13 gennaio venne in rilievo la proposta di una “musealizzazione” dell’intera zona: idea che resta più che valida e l’unica in grado di far assumere senso compiuto a quelle vestigia, case, e terreni che formano il vecchio centro. Nondimeno, sempre in occasione di quella ricorrenza emerse la possibilità e l’opportunità – non colta per le solite beghe paesane del vile danaro, che pure c’era, ed in parte per la diretta responsabilità di chi scrive – di sottoporre, con le moderne tecnologie oggi a disposizione, l’intero antico sito del centro ad un lettura di sofisticate apparecchiature, onde rilevarne l’esatta consistenza e i molteplici strati che certamente si celano sotto quel che oggi vediamo. Oggi più che mai siamo convinti che senza questa preliminare operazione di rilevamento tridimensionale (Lidar), dall’alto, della possibilità di avere contezza dell’intero contesto, sin nelle viscere, ogni partenza non potrà che fatalmente rivelarsi insoddisfacente, incoerente, sviante.

Invero, in questo progetto del Masterplan, nella relazione generale, vi sono diversi riferimenti allo «scavo nel passato dei luoghi», ai «reperti anche immateriali», alle «atmosfere di un luogo» ma l’output complessivo degli elaborati, che si estrinseca nell’apposizione di «totem ed elementi informativi» (con tanto di misteriosa “porta” – virgolettata nell’originale del testo – appena fuori il municipio) ci pare passi sopra il complesso sito, unendolo dal ponte di piazza Mazzarino, in basso, sino al castello Piccolomini, in alto, senza curarsi più di tanto del sottostante. Cosa ci scriveremo su questi pannelli informativi (destinati a durare ben poco, se non accompagnati da una grandissima elaborazione culturale: e non solo perché di vecchia concezione, per quanto realizzati in materiale coriaceo)? Qualcuno sa dove fosse esattamente la Casa del priorato di San Nicola (l’ospedale di San Nicola Ferrato, ove venivano ricoverati i proietti del circondario), che un canonico inviato in visita dall’ordine di San Filippo Neri ci descrive, nell’anno 1743, «situata sotto il castello di Pescina, nel locale detto l’Inferno»? E cosa sarà stato mai un luogo denominato “Inferno”, alla sommità di un centro abitato? Noi non sapremmo dirlo. Speriamo l’approccio sia più felice di chi, nella relazione storico-artistica del progetto del quale oggi si tratta ci dice che Pescina «nel 1806 diviene comune autonomo insieme alle frazioni di Venere, S. Benedetto dei Marsi e Collarmele» (!).

Questo per dire che sui vari siti che dovrebbero essere uniti da questo progetto rischiamo di fare della pessima terapia della memoria recuperata. Senza un lavoro filologico specialistico sulle fonti e – soprattutto – sul terreno non si potrà che edificare un falso ricordo collettivo, una storia consolatoria: tutte cose destinate ad un rapido deperimento, tra l’indignazione del popolo antipolitico e anticasta.

Si dirà (come sempre nel pubblico: e di qui, anche, il disastro che è venuto, di quel pubblico che è di tutti e di nessuno): ora abbiamo questi soldi e questo progetto, facciamo questo! Chissà quando ripassa questo treno!

Anche per noi: se il soddisfacimento della necessità di avere un consolidamento definitivo della torre deve necessariamente passare per un suo utilizzo (valorizzazione), allora il pezzo finisce qui, perché la fruizione agli umani che si vorrebbe garantire con il progetto di cui trattasi implica che la torre sia resa non solo sicura ma indistruttibile. Nella relazione che accompagna il progetto esecutivo leggiamo di «consolidamento statico delle strutture murarie lesionate»; di «inserimento di presìdi utili ad impedire l’attivazione di cinematismi attivi e diminuire la vulnerabilità sismica»; persino della sistemazione dell’impianto di illuminazione del quale abbiamo sopra trattato. Nessuno potrebbe contestare queste attività, e neppure lo sfrangiamento dell’orlo sommitale della torre ovvero il suo completamento con pietre locali. E sta bene persino il sentiero che traccia da sotto a sopra e arriva sino in cielo, anche se non ci indicherà per bene cosa ci fosse sotto al sedime (perché non lo sappiamo esattamente: ma c’era un paese, una città), e ammesso che si possa trattare quel che residua di millenni di storia di un agglomerato di esseri umani come i Piani di Pezza, tracciandolo, come dicono da noi.

Se invece si vuole valutare un percorso diverso, che non cozza necessariamente con l’intervento annunziato dal municipio, un percorso con il quale: a) si identifica l’ambito prioritario complessivo sul quale agire; b) si decodificano le necessità; c) si individuano dei piani di azione, e da dove iniziare; ebbene, pensiamo che una riflessione d’insieme sul tema della nostra Storia antica vada fatta, per poi decidere dove si voglia andare a parare. E, a quel punto, porsi anche la questione della torre, alla quale infine torniamo (la presente esposizione potrebbe apparire particolarmente caotica; ma riflette, a guardare meglio, l’idea complessiva dell’oggetto del progetto).

Gli elaborati propostici, senza essere dei tecnici, mostrano l’intenzione di realizzare rampe e passaggi invasivi, che andrebbero senza dubbio a modificare l’immagine della torre, e per certi versi a fare dell’intervento stesso il monumento, la sua spina dorsale. Dobbiamo chiederci se la conservazione e la tutela non vengano prima – anche nel dovere istituzionale di chi, Autorità, il progetto ha asseverato – dell’utilizzo del bene culturale. Bene che, nel caso di specie, poco si presta ad essere percorso, arrampicato, scalato. Il suo pregio è di costituire un simbolo intangibile, di identificare e identificarsi nel paesaggio, senza cicatrici e pedane; non di (poter) essere, in potenza, un qualcosa su cui aggirarsi per le foto, il fomite di una terrazza sul Fucino. Non ci sembra ne abbia le caratteristiche, le dimensioni; che sia questa una sua possibile coerente ragionevole destinazione. Ma potremmo essere in errore, preda del misoneismo, dell’età che avanza, dell’incapacità di comprendere il pregio del progetto. Certo, uno dei principi basilari ai quali ispirarsi per l’intervento sui beni culturali, quello della ‘reversibilità’, richiamato peraltro espressamente negli elaborati dai professionisti che li hanno redatti, non ci pare esattamente ossequiato, in questo specifico caso.

Fossimo quindi nell’amministrazione pescinese oggi in carica, come il sindaco De Giorgio molti anni or sono, ripartiremmo chiedendoci, una volta di più del necessario (se ritenuto necessario, ovvio), cosa vogliamo fare non della torre ma di tutto l’antico sito del paese, sino a sopra la montagna, e di attentamente valutare se rischiare – ripetiamo: dopo averlo consolidato – di banalizzare un simbolo, di trasformarlo in un oggetto di uso, magari tenuto così così.

Tanto si doveva, a scarico di coscienza.

Franco Massimo Botticchio


TRATTO DA: Il martello del Fucino 2018-10

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