Turismo negazionista / 2 – Perché gli Abruzzi (non) si salveranno

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
12 Minuti di lettura

A cadaveri ancora caldi – o freddi, se lo si preferisce –, tra i fenomeni di maggiore interesse che è stato possibile osservare nel magma comunicativo dell’emergenza maltempo-terremoto negli Abruzzi, è sicuramente da ricomprendere quello del rumore bianco sorto ad ottundere, sotto la spessa coltra di neve, le prevedibili ripercussioni sul settore turistico derivanti dai diversi disastri registratisi nella seconda metà di gennaio (oltre a Rigopiano e Campo Felice, ricordiamo le diverse persone morte di stenti o in incidenti nati per procacciarsi l’indispensabile a sopravvivere).

Accanto a chi si è posto il problema della sollecitudine dei soccorsi, della liceità di alcuni interventi edilizi e chiesto – come fisiologico in simili gravissimi casi – si verifichino le responsabilità e puniscano gli eventuali colpevoli, è presto sorta una corrente di pensiero che con modalità via via più sollecite e spicce, ha creduto bene di dedicarsi a delimitare l’area vasta dell’incendio del sistema Abruzzo (governo del territorio, infrastrutture, risposta delle Autorità: tutto è finito sotto la scure della legittima polemica), tentando – secondo la vulgata ingenerata e sposata dalla riserva mentale dei protagonisti del diffuso movimento di opinione di cui trattasi – di salvare il salvabile. Salvabile asseritamente posto in pericolo non dal terremoto ma dal preteso allarme della Commissione Grandi Rischi, non dal collasso delle comunicazioni e delle prospettive e della immagine di un intero Territorio umiliato e in ginocchio ma da certa comunicazione (non tutta, come si vedrà).

A farne le spese sono stati, tra gli altri, il prete che nell’immediatezza degli accadimenti, in televisione, ha inviato l’uditorio a non recarsi in Abruzzo (prete che, adesso che ha ritrattato, esprimendosi in senso opposto, è diventato un nostro beniamino; ma chissà che adesso il religioso non passi qualche guaio con il Veneto e con il Trentino, o con gli altri luoghi dell’arco alpino, scavalcati nella gerarchia delle preferenze [ri]ostesa da cotanto prelato dopo la reprimenda) e – in maniera rivelatrice del sentimento che alberga (il termine non è casuale) negli animi di taluni forti e gentili – alcuni esponenti della politica e della scienza. Tra questi, ragguardevoli e sintomatici i casi del consigliere regionale aquilano Pietrucci e del più noto geologo Mario Tozzi i quali, per aver asserito l’ovvio – anche ad abbracciare la più benevola interpretazione della teoria degli errori latenti: quel resort di Rigopiano non doveva trovarsi lì – sono stati oggetto di una serie di contumelie e attacchi di gran lunga più pesanti di quelli subìti dai protagonisti della caotica querelle della ristrutturazione dell’albergo scomparso, immortalati in quelle espressioni sull’indole degli indigeni vergate dal giudice che rappresentano, per gli onesti e per chi fa il suo ogni giorno, delle scudisciate alla dignità (di tutti gli abruzzesi) più forti di qualsivoglia allarmismo (e che, incidentalmente, hanno fatto il giro del mondo più degli allarmi e dei pretesi allarmismi di complemento).

Ecco: potrebbe entrarci la psicologia, in questa identificazione-sovrapposizione della causa abruzzese tout court con quella di alcuni operatori economici («i comprensori sciistici, pur con il lutto nel cuore, sono aperti e funzionanti in sicurezza», è infine riuscito a dire un sindaco; e gli premeva di farla passare questa cosa al punto di reclamare l’accesso riparatorio alla maggiore rete nazionale) ovvero con la stagione turistica complessivamente intesa.

Di psicologico, certamente, vi è quello che Gadda descrive, ne «La cognizione del dolore», come il senso esclusivo della proprietà, e che conduce taluni operatori economici ad identificarsi con il tutto: altrimenti non potrebbero considerare le loro esigenze, – per quanto legittime e comprensibili esse siano; e per quanto ritorno e ricaduta sui luoghi da dette attività scaturisca – come quelle della collettività [si indovina lo stesso sentimento che sottende alle enclosure dei signori balneatori sul nostro Adriatico, mare la cui vista è in buona parte negata da strutture permanenti di (in teoria) concessionari, e per il quale è difficile ormai persino l’accesso in battigia (che come si sa, è proprio di tutti)]. A parziale scusante degli operatori dei comprensori sciistici, vi è da dire che è sempre andata così, e non si comprende perché ora dovrebbe marciare diversamente. Sin da quando – fatto salvo il turismo storico e di alto rango che ha contraddistinto alcuni luoghi a partire da oltre cento anni or sono sino agli anni Trenta – i moderni interventi per gli impianti di risalita sono stati realizzati, nella beata e spensierata età che va dagli anni Cinquanta ai Sessanta del secolo scorso, sottraendo i terreni delle piste agli usi civici millenari delle popolazioni. Sempre, s-e-m-p-r-e l’interesse di chi investiva sullo sci è stato assunto come esattamente corrispondente e funzionale a quello del paese sotto gli impianti, in un’ordalia che ha sacrificato, oltre che un bene collettivo – e i tanti danari messi dalla Regione, e talvolta i canoni, se non l’attenzione (non proprio vigile su qualche intervento che poi si poteva sempre sanare) – ogni simulacro o parvenza di altre soluzioni, o di piani B. Di concerto, aggregato e indissolubile connubio, molto moltissimo troppo cemento, dispensato sotto l’usbergo di piani di fabbricazione, del bisogno di lavoro, dell’illusione di poter assurgere a grandi mete turistiche. A guidare cotanto processo quasi mai sono state le comunità locali: la maggiore stazione abruzzese ha preso le attuali mostruose (si parla di dimensioni) sembianze con l’arrivo di un primo cittadino (ed operatore!) lombardo mentre altrove si ricorda il mitologico Mr. Roger (non pare nome di alloglotti); persino l’epopea di un quarto di secolo di Bernardo Trillò a Pescasseroli è evidentemente di emanazione romana. Ancora oggi, di locali a gestire ce ne sono pochi…. Come si domanda l’amico Pantaleo: quanto sborsa il contribuente per il turismo montano invernale in Abruzzo? Mi permetto segnalare l’intero pezzo: http://site.it/principianti-assoluti/

Non che quelle abruzzesi oggi non siano strutture degne di considerazione; ma come ha scritto Stefano Ardito in un suo recente controverso intervento sul Corriere della Sera, le idee della governance del settore paiono più ancorate al retaggio del passato che ad una visione consapevole del futuro:

«[…] In Alto Adige, terra che conosco bene, gli impianti di risalita, tranne quelli dedicati ai ragazzi, si fanno con fondi privati. In Abruzzo, negli scorsi anni, sono state stanziate centinaia di migliaia di euro per nuovi impianti. Alcuni progetti avevano senso, altri no, e li ho criticati e contestati. Ma il punto non è questo, stavolta. Se costruire nuovi impianti è l’unico finanziamento che si riesce a concepire per la montagna, vuol dire che chi amministra queste terre ha la testa ferma agli anni Sessanta […]»

Chi attualmente amministra non si è sottratto all’uso scellerato – torna la questione della cura dell’immagine, della quale gli Abruzzi hanno una disperata urgenza: non procrastinabile ulteriormente in specie per chi assume di (voler) essere una méta turistica – del brand-logo “Abruzzo” per il messaggio che chiedeva di lasciar perdere i due euro dello sms ma di venire in Abruzzo…. Chi ha permesso questo? Not in my name, verrebbe da dire…

Sposiamo in tutto e per tutto le parole di Lilli Mandara (dal suo blog):

«[…] Sotto la valanga ci sono ventinove morti e la dignità di una regione. Sotto la neve è sepolta per sempre la vita di 29 famiglie e pure l’ultima speranza. Ieri, soltanto ieri è finito tutto e già partivano in massa gli appelli per i turisti: venite in vacanza qui, solo così aiuterete l’Abruzzo. No, l’Abruzzo non è così che si aiuta. L’Abruzzo si aiuta da solo, scrivendo le sue priorità: non c’è turismo e non c’è sviluppo né futuro se non si scava lì sotto quella valanga. E lì sotto è rimasta seppellita per sempre la serietà e la credibilità di una terra che non cresce, che non si affranca dai familismi e dagli abusi, dalle raccomandazioni e dalla politica a basso prezzo. Non c’è un domani se non c’è sicurezza, serietà, se le parole non torneranno ad avere un peso un senso un valore […]»

No, l’Abruzzo non è così che si aiuta.

Ma notiamo come la tendenza invalsa sia quella di nascondere la neve sotto un tappeto di ipocrisia. E persino il terremoto. E tutte le criticità che le recenti terribili vicissitudini hanno portato nuovamente alla nostra attenzione. Ma che non sono nuove. Ancora ieri sul maggiore quotidiano regionale, strali addirittura contro la «psicosi da valanghe»: ma le psicosi si combattono con la corretta informazione, il comportamento ineccepibile, la trasparenza. Non considerando l’utente-turista come un bambino capriccioso o un cretino che non si rende esattamente conto di dove stia andando. La convinzione che sostenendo che tutto va bene madama la marchesa la realtà dei fatti si conformi al nostro desiderio non potrà che portarci al cozzo. Di converso, solo poche voci – che circolano in modo carbonaro – su criticità rilevate in altre località sciistiche (Prati di Tivo) ma più in generale spaventa e fa orrore l’approccio economicistico e semplicistico a questioni complesse quali quelle legate al riassetto complessivo del Territorio, e alla gestione di criticità non redimibili a chiacchiere e furbizie paesane. Criticità eterne, non eliminabili, incombenti.

Come può immaginarsi, poi, il morbo del negazionismo attecchisce facilmente, costituendo la profilassi più facile e semplice da adoperarsi, in difetto dei rimedi efficaci. Dà soddisfazione sui social network ma finisce lì: con il dagli all’untore! si scarica certo la coscienza ma lo stato delle cose e dei luoghi e delle situazioni non muta di una virgola, incrudelisce piuttosto.

Il dubbio è che si sia giunti ormai allo stadio nel quale non ci siano più rimedi che un’alzata di spalle.

ilmartellodelfucino@gmail.com

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