Sulmona, monte San Cosimo: da base militare top-secret ad affari nucleari \ 1

Redazione
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Monte San Cosimo: da base militare top-secret ad affari nucleari \ 1

Cosa c’è sotto monte San Cosimo? Da decenni tutti se lo chiedono ma nessuno finora ha mai dato una risposta convincente. Il mistero è ben custodito da un ferreo segreto militare. L’ipotesi più accreditata e che si è fatta largo nell’opinione pubblica, non solo locale, è che nelle viscere del monte possano essere custodite non soltanto munizioni e armi tradizionali ma anche armamenti ‘non convenzionali’.

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Questo significa che possono esservi occultate anche armi particolari come proiettili ad uranio impoverito? Oppure ordigni per la guerra NBC (nucleare, batteriologica e chimica)? O anche scorie radioattive?
Certo è che le caratteristiche del sito lo lascerebbero supporre. Dentro il monte, infatti, sono stati realizzati vari tunnel, sia prima che dopo la seconda guerra mondiale, utilizzati proprio per lo stoccaggio di materiale bellico. Tutta la storia di questa base, del resto, è strettamente connessa con le vicende militari. Più precisamente, essa nasce proprio in funzione della guerra, quando il regime fascista, alla fine degli anni ‘30, trasformò un’ampia area agricola in sito industriale per consentire la costruzione dello stabilimento Montecatini-Nobel, finalizzato alla produzione di esplosivi. Ed è proprio per la sua importanza strategica nell’ambito della produzione bellica che esso venne bombardato e in gran parte distrutto dall’aviazione alleata il 28 agosto 1943, provocando la morte di almeno 9 persone. Successivamente, le truppe naziste in ritirata devastarono lo stabilimento, facendo saltare con mine tutte le riservette a sud della fabbrica, piene di esplosivo T4 in deposito.
Le mobilitazioni popolari per la riconversione del ex-dinamitificio Nobel di Pratola Peligna in industria chimica di pace iniziarono già nell’agosto 1945. Il 1 luglio 1948, la Camera del Lavoro circondariale di Sulmona proclamò uno sciopero generale nei comuni di Sulmona, Pratola Peligna, Prezza, Corfinio, Bugnara e Roccacasale per protestare contro la disoccupazione e chiedere la riconversione in industria di pace dell’ex dinamitificio, che nel momento di massima attività impiegava circa 2.000 persone. All’agitazione aderirono tutte le categorie di lavoratori (eccetto gli addetti ai servizi di pubblica necessità). Dopo qualche giorno, una commissione formata da deputati della zona, rappresentanti sindacali e sindaci si recò a Roma per esporre ai ministeri competenti il problema, ma i risultati non furono fruttuosi: prima il ministero della Difesa, poi la Nobel dichiararono il loro disinteresse alla riattivazione ed alla riconversione dello stabilimento. In una lettera inviata dalla Nobel (6 settembre 1948) al dicastero dell’Industria si legge che «non è possibile prevedere la riconversione per industria di pace, anche per l’ingente onere finanziario che si richiederebbe».
L’area di monte San Cosimo passò così alle dirette dipendenze dell’amministrazione militare e balzò più volte agli onori della cronaca nazionale, come quando, nel pieno della crisi Italia-Libia (1986), Gheddafi la incluse nell’elenco degli obiettivi da colpire. Il giornale del regime, «Il Jamahirya», il 28 marzo 1986 pubblicò un articolo in cui si affermava: «siamo una forza rivoluzionaria che sa bene dove indirizzare il colpo all’America in Italia», e tra le basi nel mirino, dopo Napoli, Sigonella e Comiso, veniva elencata anche quella «sotto i monti della strada di Pescara» (l’autostrada Roma-Pescara passa proprio sotto monte San Cosimo). La conferma dell’importanza della base è data anche dal fatto che, ogni volta che la tensione internazionale sale, monte San Cosimo viene inserito tra gli obiettivi strategici sottoposti alla massima protezione secondo i dispositivi NATO. Così, nell’aprile 1986, la stampa nazionale riferì che i servizi segreti italiani avevano accentuato le misure di vigilanza e prevenzione presso alcuni obiettivi «sensibili» e tra questi erano inclusi «i depositi di monte San Cosimo (contenenti armamenti sofisticati) di Pratola Peligna».
Ecco perché le rassicurazioni che periodicamente sono state fornite dai ministri della Difesa in carica – secondo cui la base conterrebbe solo «limitati quantitativi di armi e munizioni» – sono sempre apparse poco credibili. Se così fosse, sarebbe del tutto illogico impiegare a questo scopo un’area tanto vasta, che supera i 133 ettari, e che è attrezzata di tutto punto sotto il profilo logistico. L’unico parlamentare – a quanto ci risulti – che abbia ispezionato la base militare, è stato il senatore socialista Michele Celidonio, nel 1968, nella sua qualità di componente della Commissione Difesa del Senato, di cui divenne vicepresidente. Dalla relazione che egli fece di quella visita emerge che all’interno vi sono circa «40 fabbricati costruiti tutti con strutture di cemento armato», circa «10 chilometri di strade cilindrate», circa «30 chilometri di tubazioni per acqua potabile», circa «15 chilometri di fognature» e «20 chilometri di elettrodotti per alta e bassa tensione». Il deposito è inoltre dotato di «un raccordo ferroviario di 3 chilometri allacciato alla rete delle ferrovie dello Stato» nella stazione di Pratola Peligna superiore. In una intervista rilasciata al giornale «Ab-regione» (del gennaio-febbraio 1985), il senatore Celidonio, rispondendo alla domanda su cosa vide in occasione dell’ispezione, così rispose: «ebbi modo di vedere grossi ordigni, come grandi tubi, adagiati su un piano di almeno una ventina di metri. Per quello che mi fu detto, erano elementi concernenti la produzione di materiale da guerra nucleare. Non mi fu possibile sapere di più dal maresciallo che mi accompagnava, perché forse neanche lui era a completa conoscenza della reale portata di quanto custodiva, per ovvie esigenze di servizio».
Alla fine del 1985 la fascia di servitù tutt’attorno alla base, che fino ad allora era stata di 100 metri, venne portata a 200 metri. Ciò avvenne in seguito ai lavori che vennero effettuati all’interno e che portarono ad «una accresciuta capacità del deposito», come spiegò l’allora ministro della Difesa Giovanni Spadolini rispondendo ad una interrogazione del deputato radicale Francesco Rutelli. Il raddoppio delle servitù sollevò forti proteste sia da parte dei cittadini che dello stesso Comune di Pratola Peligna, ma il Ministero non tornò sui suoi passi. Rimase così senza risposta la domanda posta dal ‘comitato contro le servitù militari’: «per quale ragione a Comiso (dove sono installati i missili Cruise) la fascia di servitù militare è di 20 metri mentre intorno a San Cosimo è quasi sette volte maggiore?»
Pochi anni dopo la storia di San Cosimo tornò ad incrociarsi con la questione nucleare. Questa volta a riportare la base all’attenzione nazionale fu il problema delle scorie radioattive. La notizia, pubblicata dal settimanale «L’Espresso», ebbe un effetto dirompente. L’ENEA-DISP (l’ente energetico nazionale) aveva individuato in Italia 4 siti, tutti appartenenti al demanio militare, aventi idoneità per lo stoccaggio di rifiuti radioattivi. Uno dei 4 siti era proprio il deposito di monte San Cosimo (le altre 3 aree erano Anagni, in provincia di Frosinone, Rio Gandore in provincia di Piacenza, e Poggiorsini in provincia di Bari). Il problema era quello di dove allocare le scorie prodotte dalle centrali nucleari chiuse dopo il referendum popolare del 1987, nonché i rifiuti radioattivi di origine industriale e quelli ospedalieri. Per spegnere la protesta, che rischiava di trasformarsi in una vera e propria sollevazione popolare, il ministero della Difesa disse che quella dell’ENEA-DISP era solo una «ipotesi». Da allora, su questo possibile impiego di San Cosimo, oltre che come deposito di armi e munizioni, anche come sito per scorie radioattive, é sceso un silenzio inquietante; un silenzio del quale si sono rese complici tutte le forze politiche e che é stato rotto soltanto dalle iniziative messe in atto da associazioni e comitati di cittadini. «Dove sono finite le scorie nucleari?», ha domandato, ad esempio, la Casa per la Pace di Sulmona dopo che, in seguito alla rivolta di Scanzano Jonico, nel novembre 2003, il governo aveva annunciato che esse sarebbero state stoccate – in via «temporanea» naturalmente – in aree militari. Quali siano queste aree militari il governo, ovviamente, non lo ha mai rivelato. Ma, per cercare una risposta, non è del tutto fuori luogo riandare con la memoria allo studio dell’ENEA-DISP del 1990.
A far tornare prepotentemente alla ribalta l’intreccio monte San Cosimo-rifiuti nucleari é stato l’annuncio dato, nell’aprile 2010, dal fisico sulmonese Fabio Cardone, il quale avrebbe messo a punto una ‘invenzione’ che, a suo dire, determinerebbe, tra l’altro, proprio l’abbattimento della radioattività delle scorie. E questa macchina, il cui prototipo costerebbe non meno di 100 milioni di euro, dovrebbe essere realizzata proprio all’interno della base militare di San Cosimo. Ma di questo parleremo nel prossimo numero.
Mario Pizzola

TRATTO DA: site.it/martellopeligno 2012 -3 

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