“Sistema L’Aquila” – Caporalato e non solo

Angelo Venti
Angelo Venti
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Franco Roberti

L’Aquila – I finanzieri di Gico e Scico questa mattina hanno eseguito 7 arresti nell’ambito dell’operazione  “Dirty Job“. Nel mirino le collusioni tra imprenditori aquilani e i clan casalesi riconducibili a Zagaria per diversi appalti per oltre dieci milioni di euro nella ricostruzione privata post terremoto.

Estorsione aggravata dal metodo mafioso, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro i reati finora contestati in una corposa ordinanza di oltre 500 pagine.

All’apparenza sembra una semplice operazione contro il caporalato – ma nonostante non venga contestata l’associazione mafiosa e il 416bis – l’inchiesta potrebbe portare a sviluppi clamorosi.

L’operazione è un’ulteriore conferma di un quadro già noto, nonostante che sulle presenze mafiose negli affari della ricostruzione in questi anni – sia dai politici che dagli stessi inquirenti – si è più volte levato un coro tendente a negare  o circoscrivere il fenomeno.

Dal Presidio aquilano di Libera definiscono quella di oggi – più per le dichiarazioni dei magistrati che per i contenuti comunicati sull’inchiesta – come una “conferenza stampa storica“. Presenti il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, il procuratore capo dell’Aquila Fausto Cardella, la sostituto procuratore della Dna Diana De Martino, il pm David Mancini, il comandante del nucleo di Polizia tributaria della Guardia di finanza Gianluca De Benedictis, il comandante provinciale delle Fiamme Gialle Giovanni Castrignanò e quello regionale Francesco Attardi.

Molto interessanti alcune delle dichiarazioni rilasciate dai Pm. “La vera forza delle mafie sta fuori dalle mafie, in quella zona grigia che le circonda, e assume rapporti a scopo di profitto – ha esordito il procuratore nazionale antimafia, Franco RobertiOggi non parleremmo di infiltrazioni se non ci fossero alcune imprese che, dopo aver acquisito dei lavori, li hanno appaltati in toto alle imprese criminali tramite i Di Tella“. Poi l’affondo finale di Roberti: “L’insufficienza dei controlli e’ stata agevolata da un quadro normativo molto debole non affidato a norme vincolanti ma a linee guida puntualmente disattese“.

Frase, questa, destinata a lasciare il segno.

A una domanda sulla reale efficacia di alcuni strumenti di contrasto, Roberti passa la parola a Diana De Martino, sostituto procuratore della Dna. La De Martino parla delle positività del “Sistema L’Aquila“, cioè degli strumenti previsti dalle Linee guida predisposte dall’allora prefetto Franco Gabrielli, in particolare della norma che accentra in mano al Prefetto dell’Aquila i controlli antimafia anche per le ditte provenienti da fuori provincia: una soluzione che velocizza le verifiche. La De Martino conferma, però, che il numero delle ditte iscritte nella White list è esiguo e che comunque le norme previste nelle linee guida possono essere applicate solo negli appalti pubblici e non nella ricostruzione privata.

La scelta di trasformare il contributo dello stato in indennizzo, infatti, trasferisce i soldi nelle mani del proprietario dell’immobile, che li gestisce senza appalto pubblico e a trattativa privata. Fu lo stesso Cialente, subito dopo le ultime dimissioni, a dichiarare che “la ricostruzione privata è fuori controllo“. Questa è la prima volta che dei magistrati, a proposito dell’Aquila, indicano come problema centrale il quadro normativo debole, le linee guida disattese e l’insufficienza dei controlli: lo stesso problema che Libera denuncia dal 2009.

Nel dossier “La fine dell’isola felice” del 2010, fu proprio Libera a trattare degli effetti delle ordinanze in deroga alle leggi ordinarie e ai controlli, delle ordinanze cancella-reati, dell’assenza di efficaci mezzi di contrasto, della mancata attivazione di alcuni strumenti rimasti solo sulla carta. E’ il “Sistema L’Aquila“.

Un sistema che non a caso attraversa trasversalmente tutte le inchieste aperte sull’emergenza e sulla ricostruzione: appalti prima emergenza, Progetto case, puntellamenti, Beni artistici e proprietà della Chiesa, ricostruzione delle scuole e, infine, la ricostruzione privata. Un “Sistema” fatto di un castello normativo che finisce per unire L’Aquila all’Emilia, all’Expo di Milano e al Mose di Venezia e che viene applicato con leggere varianti nelle emergenze, nelle Grandi opere e nei Grandi eventi. Sempre con il ricorso massiccio alle ordinanze in deroga alle leggi ordinarie, che finiscono per produrre un allentamento generalizzato dei controlli di legalità e la lievitazione dei prezzi. E dove girano soldi con facilità e senza controlli arriva anche corruzione, criminalità organizzata, mafie.

Nel corso della conferenza stampa il procuratore capo dell’Aquila Fausto Cardella, che ha coordinato l’inchiesta del sostituto David Mancini, ringrazia i dipendenti della procura e gli uomini che hanno svolto le indagini con impegno e professionalità e mette infine il dito su un’altra piaga, quella della carenza di organico della Procura aquilana.

A dare qualche dettaglio in più sull’inchiesta “Dirty Job” è invece il pm David Mancini, della distrettuale antimafia. Ai domiciliari sono finiti Elio Gizzi, ex presidente dell’Aquila calcio, attuale amministratore e direttore generale della società, e i fratelli Dino Marino Serpetti, tutti e tre aquilani. Destinatari di misure cautelari in carcere sono invece i casertani AlfonsoCipriano Domenico Di Tella e infine Michele Bianchini, originario di Avezzano.

Per il Pm Mancini “Gli imprenditori aquilani acquisivano, nell’ambito della ricostruzione privata, una gran quantità di commesse che, poi, subappaltavano completamente alle imprese dei Di Tella, vicini ai Casalesi. Portavano a L’Aquila i lavoratori casertani, li facevano assumere formalmente, con regolare busta paga, quindi chiedevano indietro il 50% di quanto legittimamente guadagnato, attraverso semplici prelievi bancomat. I guadagni illecitamente procurati finivano in una contabilità occulta, parallela“.

Secondo il Pm Mancini gli imprenditori aquilani che avevano ottenuto l’appalto “guadagnavano più o meno il 30% senza metter mano nei lavori“.

A distruggere il luogo comune “dell’aquilanità e della non aquilanità della ricostruzione” ci pensa invece il comandante provinciale delle Fiamme Gialle, Giovanni Castrignanò:

Si può dire che l’aquilanità è solo apparente – ha scandito Castrignanò in conferenza stampa – in sostanza ditte aquilane prendevano l’appalto e poi subappaltavano completamente ai casalesi con le modalità che abbiamo illustrato“.

Ma facendo due calcoli con i dati forniti dalla procura emerge un’altra realtà sconcertante. Gli imprenditori aquilani prendevano il 30% senza nemmeno mettere piede nel cantiere. Gli affiliati del clan Zagaria incassavano il 70% per eseguire i lavori (in fondo, un “normale” ribasso d’asta del 30%…). A pagare tutto erano gli operai, costretti a restituire il 50% dello stipendio per pagare clan e imprenditori aquilani.

Siamo al caporalato versione 2.0 ….

Angelo Venti

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