Perché gli Abruzzi (non) si salveranno – Turismo esoterico / 1.0

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
10 Minuti di lettura
Visione-epifania nella metropolitana di Roma

Negli ultimi tempi, i segnali sono stati di segno opposto, riconfermando quell’ambivalenza che dall’epoca del grand tour caratterizza il tema e le speranze delle prospettive turistiche degli Abruzzi (quell’insieme di Territori cioè giustamente appellati al plurale dai Costituenti, e riottosamente ricondotti al singolare in quell’ente Regione che invece, all’atto della sua nascita – per dar prova di un’unità che neppure la locale struttura del partito di maggioranza relativa minimamente aveva – si volle sciaguratamente declinare come Abruzzo). Posti di grande bellezza, giustamente celebrati dai grandi giornali americani o enfaticamente paragonati al Tibet dai network nazionali (!), uniti ad altri di minore interesse – quando non apertamente stravolti dall’antropizzazione degli ultimi settant’anni – e persino agli ultimi che per bellezza e salubrità un qualunque turista o viaggiatore si augurerebbe di incontrare sulla propria strada. Strada peraltro piuttosto accidentata per caratteristiche morfologiche, e sulla quale tutti gli elementi su esposti si trovano caoticamente esposti e disposti, senza soluzione di continuità e intelligibilità. Se vogliamo, in quella luce di bellezza data da tanto ferace frammisto.

Poi ci sono i dati, impietosi, che ci relegano al terz’ultimo posto in Italia per numero di visite, e ci si trova tutti a riflettere sul fatto che il problema non può risiedere in quella storica difficoltà nelle comunicazioni che da sempre, speciosamente, viene lamentata quale scudo di ogni pigrizia (e non, al limite, esaltata quale fattore di diversità; come dovrebbe esserlo la «i» di Abruzzi, per intenderci), e che oggi, fatte pure salve le condizioni di alcune vessate infrastrutture, non ha proprio ragion d’essere. E che mai potrebbe giustificare certi risultati. Potremmo cavarcela con una battuta, invocando la circostanza che la mancanza di domanda crea la mancanza di offerta ma la contiguità territoriale di due popolatissime aree metropolitane (Roma e Napoli) dovrebbe suggerirci che un qualcosa in più sul lato dell’offerta poteva e potrebbe essere tentata, prima di decretare che non esiste domanda per quel bene o il talaltro.

A modesto giudizio di chi scrive, le ragioni di una condizione complessivamente non felice degli Abruzzi in tema di turismo possono ricondursi a quattro grandi gruppi di sentimenti e inclinazioni, che ci permettiamo di brevemente categorizzare, con tutte le prudenze del caso e l’ironia da esso richiesta per affrontare un simile tema:

a) sperticata fiducia, negli indigeni, in una sorta di pensiero magico (copyright: Giuseppe Pantaleo) che informerebbe tutto il settore del terziario e dei servizi, pensiero nel quale in molti indulgono: in pratica, se si ha uno speco di montagna, una vecchia chiesa rupestre, una pista innevata, un ristorante, automaticamente il Territorio diviene di per se stesso oggetto passivo di turismo, e non è dunque il caso di applicarvisi onde renderlo appena fruibile, conosciuto, apprezzato. Quando questo fluido non produce gli auspicati effetti sul reddito, la causa è da ricercarsi non nella propria (in)attività ma in tutta una serie di ragioni altre, da noi aliene (politica inclusa – che poi in molti luoghi, abitati, ad ora di pranzo si rischi di morire di fame e di sete perché gli esercizi pubblici chiudono in blocco, niente da dire);

b) spesso accompagnato alle manifestazioni di cui al punto a), negli animi degli Abruzzesici (copyright: Luciano D’Alfonso) – di tutti indifferentemente: quelli dell’Abruzzo Citra, dell’Ulteriore Primo e dell’Ulteriore Secondo – è fortissimo quello che Gadda definiva senso esclusivo della proprietà e che porta i singoli, anche coloro che per generazioni hanno adibito l’antica pieve a rifugio per ovini e persino costruito la loro abitazione su un tempio romano, a rivendicare il primato del locale, degli alloglotti, rispetto ai visitatori, ai cosiddetti forestieri (che tali rimangono, in alcune contrade, anche se scelleratamente trasferitisi di residenza da ottant’anni). Tale primazia si estrinseca in tutta una serie di manifestazioni di scarso peso, persino folcloristiche talvolta, quali quelle di bypassare, da autoctono, la fila del sabato dal fornaio, transitando innanzi a tutti i romani con il numero sfollafile o – che so – parcheggiare ostentatamente la propria vecchia Fiat Panda nel posto riservato alla navetta per gli sciatori, per recarsi al bar, nell’ora di punta (e anche lì, passando avanti a tutti, per le sigarette: tanto faccio subito, il barista sa quelle che fumo!). Questo quando le cose non assumono una sembianza più antipatica, quale quella della vera e propria subornazione della dimensione pubblica dei luoghi per inostensibili e insostenibili attività private (es.: la cuccia del cane da caccia sul demanio universale in montagna, o negli anfratti dei paesi o nella foresteria del museo). Terribile poi quando questo senso esclusivo della proprietà finisce (spesse volte purtroppo) sotto il macete della lotta politica, cosicché se il sindaco precedente ha scalzato un anfiteatro da secoli di terra il successivo troverà del tutto naturale e conseguente ignorare qualsiasi opera di manutenzione dello stesso, ove espressione dello stesso schieramento parentale-amministrativo; se non passare alle vie di fatto e all’aperto sabotaggio nel caso con il predecessore non corra buon sangue (con annessa accusa di aver dilapidato del danaro pubblico che poteva essere meglio impiegato);

c) per quanto lo si possa rinvenire in qualsiasi luogo turistico della Terra, di solito intento a mangiare e a bere, l’Abruzzese, anche quello fregno e di studi superiori, una volta tornato in Patria tende a conformarsi agli standard di pensiero in auge negli anni Cinquanta del secolo scorso, epoca aurea che continuamente loda, in avversione ai tribolati tempi presenti (ma quasi mai questo confronto va al di là delle foto della piazza cittadina; che so, a confrontare la fatica fisica del lavoro degli avi con la propria inattività, e le risorse in proporzione inversa consumate da quelli allora e da noi oggi). La convinzione di essere particolari (ma tutti i popoli lo sono, rispetto agli altri, per il fatto stesso di essere comunità altra dalle altre e tra le altre), miscelata con questa retorica dell’arcaico e agli elementi di cui ai punti a) e b), porta quale propria logica conseguenza lo svilimento di qualsiasi attività strutturale e di studio si applichi e si vada a mettere in campo (almeno negli altri luoghi, quelli normali, che essi visitano / e là il servizio lo cercano!) in campo turistico. Il sospetto che per fare Turismo con serietà occorra una visione di insieme e un duro lavoro culturale, non sfiora nemmeno certe menti. Elaborazione intellettuale, progetto, implementazione dei cervelli e delle risorse: tutti discorsi che potrebbero condurre lontani, e dunque pericolosissimi, e da avversare con tutta quella forza che non si impiega per industriarsi, da parte di soggetti non di rado affetti dalla distorsione cognitiva che va sotto il nome di effetto Dunning-Kruger. Semplicemente, il lavoro culturale non è riconosciuto come tale: meglio: non è lavoro! Il lavoro è la cava, il radicchio, il piccone! (Questo ognuno lo sa!);

d) somma di a) + b) + c), inevitabile, è l’approccio burocratico che ogni attività di promozione turistica fatalmente assumerà, in specie se ricondotta sotto l’usbergo di lugubri uffici regionali in luogo di Agenzie a ciò espressamente dedicate (Agenzie che dovrebbero seguire metodi di reclutamento diversi da quelli in uso all’Agenzia delle Entrate: cosa che in passato non è stata), con magari persone di genio e di arte in prima fila. Accentrato ma insieme parcellizzato dalle tendenze anarcoidi e municipaliste degli Abruzzesici, quasi sempre il prodotto finale risulterà di non elevato pregio, stiracchiato, infungibile, disperso in mille rivoli improduttivi. Utile a confermare l’opinione pubblica nell’idea che il Turismo sia una perdita di tempo e di soldi.

A tutto questo abbiamo pensato osservando, nella metropolitana di Roma, la scorsa settimana, il video pubblicizzante la manifestazione ABRUZZO OPEN DAY WINTER, «l’iniziativa promossa dalla Regione per inaugurare un nuovo percorso nelle strategie di sviluppo turistico» (freghete!) della quale tratteremo nel prossimo post, se ne avremo la volontà la forza il coraggio l’improntitudine.

ilmartellodelfucino@gmail.com

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