Parole cucinate a fuoco lento

Giuseppe Pantaleo
Giuseppe Pantaleo
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Foto: Angelo Venti - © site.it

(Faccio veramente il blogger stavolta e parlo di fatti personali). Mi è capitato di partecipare a un incontro (Officina Sviluppo Territoriale, Voce alle Vocazioni, 12 febbraio 2022) e di dire la mia in modo telegrafico e frammentario; provo ad allargare il mio discorso. (Ne approfitto per ringraziare gli organizzatori dell’invito: è un gran bene discutere tra tante teste diverse in questo periodo).

I concetti, i frame sono importanti soprattutto quando si propone qualcosa; lo sono in qualche maniera anche le parole d’ordine e gli effimeri slogan. Sono stati utilizzati nei word cloud un paio di termini che io nomino con parsimonia da decenni e per motivi differenti: territorio e vocazione.

Il primo è spuntato nel linguaggio comune nei primi anni Settanta – ignoro se propiziato dall’istituzione delle Comunità montane; esso indicava almeno un’area geografica e le attività che vi si svolgevano. Territorio, nel giro di neanche un decennio, fu prosciugato dall’establishment nel significato e nel senso originari fino a raggiungere l’attuale accezione; è stato, infatti, ridotto a indicare mere faccende di pubblica amministrazione. Ha perciò prodotto pochissimo o niente negli ultimi quarant’anni proprio perché non ha mostrato, indicato, suggerito ad almeno una generazione, una nuova prospettiva, un altro atteggiamento da prendere. (Non è stata solo questione di declinazione locale, purtroppo). Il word cloud ha mostrato che le idee dei partecipanti sono distanti dal sentire comune – immagino che significhi poco o niente a livello statistico.

(Oggi). Abbiamo fatto conoscenza del termine Antropocene (uomo come «forza geologica»), nel decennio passato: è fondato su che cosa? Qualcuno ha confrontato la stessa serie di elementi prodotti da Homo sapiens e dal Pianeta: talvolta le quantità provocate dalle nostre attività hanno superato quelle dell’intera Terra. Il confronto è poi passato ai mutamenti climatici degli ultimi tre secoli – dall’inizio dell’industrializzazione e la conseguente esplosione demografica –, con lassi di milioni di anni per ciò che riguarda tutto il Pianeta: le attività umane hanno portato a dei velocissimi cambiamenti del clima terrestre. Last but not least, gli uomini – e solo loro – possono rimediare alla catastrofe climatica incombente. (È una questione di attività, di consumi, di uso del suolo). Antropocene è perciò un termine corposo, soprattutto pregnante.

Tra il 1982 e il 1983 sbucò fuori, da ambienti accademici, l’espressione «bacino idrografico»; fu un gradito assist da chi viveva soprattutto sull’Appennino. In questo caso entrarono in scena una serie di valli, la quantità di acqua che queste ricevono annualmente, la vegetazione, il suolo, le numerose attività produttive suggerite dalla presenza o dalla vicinanza di un fiume – da secoli o millenni –, la strada di fondovalle che collega la sorgente in montagna con la foce, nel mare. Gli abitanti sono oltremodo facilitati da quel genere di canale nei rapporti con gli altri valligiani. Il fiume è perciò il garante di un’«unità ecologico-economica». «Bacino imbrifero» servì per impostare diverse battaglie per l’ambiente – escavazioni in alveo, argini di cemento, briglie, captazioni verso altri territori, addirittura letti artificiali –, in quel decennio. Tutto ciò mal si conciliava con i cervellotici confini amministrativi tracciati nella Penisola – Regioni, Province, Comuni. (Lungo il Po, la regione Alfa, il comune Y attuava una politica e gli omologhi il suo contrario – lungo il suo corso e su sponde opposte). È sufficiente considerare la nostra appartenenza sia al bacino del Tevere sia, soprattutto, al Liri-Garigliano-Volturno per valutare l’aspetto politico-amministrativo. (Nel breve decennio del Regno Italico di Napoleone Bonaparte vi furono ripartizioni ispirate ai département d’Oltralpe e perciò legate ai corsi d’acqua). La classe politica di quarant’anni fa – anche in questo caso – glissò sull’argomento o l’annacquò generosamente; quella attuale lo ignora semplicemente e non potrebbe essere diversamente, impegnata com’è nella difesa delle piccole patrie, del particulare. Tal espressione fece l’identica (brutta) fine di «territorio», ma più velocemente. Seguiranno anche le (deludenti per me) Autorità di bacino…

È partito nel 1994 un processo di deregulation nel campo dell’urbanistica e della pianificazione territoriale – senza fare nomi, è sufficiente la data; non vi furono opposizioni di sorta nel Parlamento. Tutto ciò sommato ai due precedenti punti, dà un’Italia ridotta a coriandoli e precaria. Un piano, un progetto a scala comprensoriale può essere, con poco sforzo, disinnescato il mese seguente l’approvazione; a mia memoria, nella città dove vivo, la definizione corrente del Prg è stata sempre «carta straccia». Avezzano non ha un’isola pedonale – dove tale tema collettivo è utile, è bene specificarlo in questo periodo – per la strenua, storica opposizione delle associazioni dei commercianti. (C’entra anche la pervasiva mentalità mafiosa, d’accordo). Purtroppo, non è stato più elaborato nella Penisola un concetto che restituisca la complessità del nostro vivere e quella dei luoghi in cui ci muoviamo, da cui il mio pessimismo non tanto per l’immediato quanto per il futuro.

Nel secondo word cloud, si è passati all’altro termine, all’incirca contemporaneo del precedente – non ho partecipato e lo spiego. In genere gli ominini si fermavano, dove loro capitavano, mangiavano tutto ciò che era a disposizione; poi si spostavano nuovamente. Avevano bisogno di acqua e vegetazione (bacche, erbe, foglie, legna); tutto questo per milioni di anni. (Homo erectus, una volta imparato a maneggiare molto bene il fuoco, lo usò perché funzionale alla caccia, poi per la coltivazione e infine per l’allevamento; erano quasi completamente coperte di alberi le terre emerse e da allora – almeno 125mila anni fa – la Terra prese ad avere, attraverso gli spazi aperti dai numerosi incendi, un aspetto familiare a noi contemporanei). I loro erano dei lunghi e sistematici vagabondaggi, frutto della casualità non di un’analisi, un ragionamento o un progetto; andarono ovunque e alle quote più disparate, soprattutto in Italia – altro che wilderness! ‘Dorme ancora la campagna o forse no | è sveglia | mi guarda | non so’: roba del genere l’ho giusto suonata e cantata con gli amici. Un paesaggio può suggerire sensazioni, pensieri e idee diverse, secondo chi lo guarda; in caso positivo: può discutersene concretamente, in modo progettuale? No.

Al suo tempo, giustificai con un conoscente la presenza di Agraria: «Con tutta quella campagna!» – c’era allora una facoltà di Agraria ad Avezzano, mentre oggi è presente Giurisprudenza. Alcune settimane più tardi, passai in bicicletta davanti al cosiddetto Centro spaziale del Fucino… (Avevo, in realtà, dimenticato anche il nucleo industriale – ancora anni Sessanta e nella Piana). A don Alessandro, passando da queste parti, venne certo voglia più di prosciugare quel lago che stiracchiarsi sulle sue sponde, fare una nuotata o andare a pesca. Le precedenti generazioni dei Tourlonias ricordavano sicuramente operazioni analoghe nella Francia a cavallo della Rivoluzione (1789). I primi polder (Paesi Bassi) risalgono a prima del 1300; la fantasia mi fa immaginare un olandese con i piedi immersi nel mare del Nord intento a fantasticare su ciò che poteva coltivare dove si trovava allora: frumento, patate, mais, farro, barbabietole da zucchero. (I tulipani sono venuti dopo). Mi è capitato di frequentare il gruppo del Gran Sasso d’Italia da giovane, non avrei mai pensato lontanamente che sotto quelle rocce qualcuno potesse installarci un laboratorio di ricerca (fisica astro-particellare). Dice qualcosa il Centro fieristico di Avezzano, sempre a ridosso dei campi coltivati o la multisala Astra nella zona industriale, impostata su ex-terreni agricoli una volta prosciugato il lago? (L’elenco potrebbe continuare). Secondo alcune elaborazioni cartografiche da satellite (Telespazio) sotto alcuni terreni fucensi, tra Avezzano e Luco dei Marsi vi sono testimonianze della centuriatio: ho fatto bene o ho sbagliato a non proporre mai uno straccio d’idea, a non parlarne mai nelle migliaia di post che ho pubblicato sulla mia città? Sorvolando, attraversando diverse aree desertiche del Pianeta, noi non immaginiamo minimamente che esse, nel passato, potessero essere occupate da città, strade, boschi, campagne, foreste, cave e miniere: vita. Ecco, dietro quest’ininterrotto rimestare del genere Homo vi è: bisogno, improvvisazione, esperienza, lungimiranza, sogno a occhi aperti più che richiami dagli ambienti antropizzati, dai canali di comunicazione o dalla muta natura – «se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei» per dirla con il Recanatese a proposito della «Natura». Riporto ora dei diversi punti di vista riguardanti la/e presunta/e vocazione/i di Avezzano apparsi ultimamente nel web, senza citare gli autori. «città a vocazione commerciale e non turistica», 27 maggio 2021. «forte vocazione commerciale in continua espansione», 21 ottobre 2021. «vocazione turistica», 28 ottobre 2021. «vocazione del territorio già orientata verso il settore produttivo dell’agro-alimentare e turistico ambientale», 3 novembre 2021. «vocazione non pesante [del nucleo industriale] ma complementare alla tradizione agricola del territorio», 9 settembre 2021. Ne approfitto per aggiungere – ogni quattro-cinque anni e d’estate – la proposta di allagare una zona del Fucino (Bacinetto) per motivi diversi, di volta in volta.

Come mai tutta questa distanza tra i desideri degli uomini, la loro storia e il termine vocazione? Perché le città che abbiamo costruito negli ultimi 8-9mila anni, in questa parte del mondo, hanno vissuto prevalentemente di agricoltura, pastorizia e artigianato – è poi giunta l’industria; le eccedenze erano utilizzate per essere scambiate con i metalli. Gli agglomerati urbani sono rimasti fortificati – per secoli da noi – fino al Settecento e ciò presumeva che essi fossero pressoché autosufficienti: dovevano avere quasi tutto dentro le mura per reggere gli assedi. Le città europee sono uguali in tutto e per tutto da almeno mille anni: stessi elementi architettonici e attività; sono ovviamente cambiate le cose negli ultimi tempi ma non molto: ordino un CD di Pharoah Sanders in un grosso magazzino di New York, Singapore o Tokio anziché nel negozietto sotto casa ma è solo uno sfizio. Una città può avere, proporzionalmente, più baristi che geometri ma non capita mai che abbia un certo numero di parrucchieri e zero lavoratori della terra, idraulici o insegnanti. La monofunzionale Las Vegas – capitale mondiale del divertimento calata nel deserto – è unica, attraente quanto fragile.

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Lavoro come illustratore e grafico; ho scritto finora una quindicina di libri bizzarri riguardanti Avezzano (AQ). Il web è dal 2006, per me, una sorta di magazzino e di laboratorio per le mie pubblicazioni.