L’Aquila, e la chiamano ricostruzione

Redazione
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I soldi per l’Abruzzo sono finiti. In un anno sono stati dilapidati un miliardo e 630 milioni di euro. Tremonti chiede ai terremotati di ricominciare a pagare le tasse mentre l’informazione tace
di Angelo Venti
L’Aquila è una città in agonia che sta morendo nell’indifferenza generale. “Omissione di soccorso”, potrebbe essere il reato da contestare, dopo quello di mancato allarme. Prima ancora di passare al resto, come lo sperpero di enormi risorse nella prima emergenza oppure alla ricostruzione che ancora non parte. A dare la misura di quanto il mondo dell’informazione sia corresponsabile del governo e del modello di intervento applicato dal dipartimento di Protezione civile targato Bertolaso, nel disegno perverso che sta uccidendo un’intera città, sono alcuni commenti rilasciati sottovoce da alcuni giornalisti presenti martedì scorso nel centro storico, i pochi che hanno risposto all’appello del sindaco Cialente di venire a verificare come è ridotta la città: «Se siamo al punto che deve chiamarci il sindaco – dichiarano autocritici durante il viaggio tra le rovine di una città fantasma – significa che qualcosa non funziona».

In un sistema normale di informazione, i giornalisti sarebbero stati qua senza sollecitazioni, l’ennesima dimostrazione che la nostra è un’informazione malata di un tumore ormai diffuso in tutto il corpo: assenti il Tg1, il Tg2, il Tg4 e Studio aperto. Il direttore del Tg5 Clemente Mimun fa sapere che è impossibilitato perché si trova all’estero mentre dei giornali di centrodestra non vi è alcuna traccia. Non è un caso che uno degli obiettivi della manifestazione che gli aquilani hanno preparato per giovedì 24 giugno siano proprio gli organi di informazione. «Saremo a viale Mazzini, sotto la sede Rai – hanno detto alla vigilia dell’iniziativa -, per protestare contro l’oscuramento da parte dei principali telegiornali di tutto ciò che accade a L’Aquila da oltre un anno. Chiediamo all’informazione onestà e verità e a chi ha già ampiamente dimostrato di non possederne – aggiungono dal Comitato 3e32 – chiediamo di lasciare il servizio pubblico». Nella giornata di protesta di giovedì anche la seduta del Consiglio comunale del capoluogo abruzzese nella Capitale, davanti al Senato della Repubblica. Le richieste dei terremotati abruzzesi si sintetizzano in una parola sola: ricostruzione. Per ottenerla, chiedono al governo finanziamenti certi e disponibili, sostegni adeguati per far ripartire l’economia del territorio, procedure certe per avviare i lavori e lo smantellamento di tutto l’apparato che è stato artificiosamente messo in piedi per minare alla base la rinascita della città e, infine, le stesse agevolazioni fiscali date in tutti gli altri terremoti che hanno colpito l’Italia. A L’Aquila, il dipartimento di Protezione civile ha potuto contare, come per i grandi eventi, sul potere di ordinanza, quello di deroga e su una possibilità di spesa senza controlli. In un anno ha bruciato risorse enormi, sottraendole alla ricostruzione vera. Per l’autority che vigila sugli appalti pubblici, tra aprile 2009 e marzo 2010, sono stati spesi per il terremoto in Abruzzo oltre un miliardo e 630 milioni di euro e i risultati sul campo sono abbastanza deludenti. Secondo l’ultimo report del commissario delegato al terremoto, al 22 giugno la popolazione assistita solo a L’Aquila ammonta a un totale di oltre 48mila persone, su un totale di circa 70mila abitanti, divise in: contributi per l’autonoma sistemazione (25.654), Progetto case (14.464), moduli abitativi provvisori nelle frazioni (2.093), affitti fondo immobiliare o concordati dalla Protezione civile (2.051), ospitate in strutture ricettive (3.436), alloggiati in caserme (609). A cui si aggiungono altri 5.776 assistiti negli altri 40 piccoli comuni del cratere (e mancano i dati di altri 17 comuni).

Letti questi numeri, è più facile comprendere le parole accorate del sindaco Cialente, quando dice: «O arrivano i soldi o si muore, e a quanto pare per la ricostruzione non c’è un soldo. Io non faccio polemiche ma a Roma forse qualcuno pensa che le new town, le città provvisorie che abbiamo costruito, forse diventeranno la nuova Aquila. Almeno abbiano il coraggio di dircelo».

La settimana scorsa c’è stata la più grande manifestazione mai vista a L’Aquila da molti decenni. La popolazione, annichilita prima dal trauma del sisma e poi incantata dalle promesse del governo, comincia lentamente a realizzare che il sogno del “miracolo” non esiste e si sta risvegliando in un incubo, quello che vede la condanna a morte della città e dell’intero territorio. In ventimila hanno manifestato per le vie della città e in oltre cinquemila hanno occupato l’autostrada Roma-L’Aquila, bloccandola per alcune ore. Alla protesta hanno partecipato tutti i sindaci del cratere, insieme a Provincia e Regione, curia, organizzazioni sindacali e di categoria, senza distinzioni politiche e con le sole bandiere con i colori della città. Una protesta che comincia a fare paura, tanto da essere oscurata dalle principali tv, pubbliche e private. «Oggi tutto è fermo e noi aquilani che chiediamo di avere un futuro siamo additati come ingrati, incontentabili e addirittura pericolosi – dichiara ancora il sindaco Cialente, che torna a chiedere una tassa di scopo per finanziare la ricostruzione -. L’ultima visita del premier Berlusconi è datata 29 gennaio 2010, quando si è cominciato a capire che i denari per la ricostruzione non c’erano». E a essere finiti sono anche i soldi per i puntellamenti degli edifici artistici. Sono 1.800 quelli danneggiati, tra cui ben 800 chiese, un danno stimato per 3,5 miliardi di euro. Bastano questi numeri per definire la catastrofe che anche sul patrimonio culturale ha causato il terremoto del 6 aprile. La denuncia arriva da un convegno della diocesi, nella consapevolezza che oltre ai fondi che non ci sono, occorre individuare anche un metodo condiviso per arrivare a una buona ricostruzione, attraverso le fasi della diagnosi del danno, della progettazione e del restauro. Il ministro Sandro Bondi non si è fatto vedere ma ha inviato il direttore generale ministeriale Roberto Cecchi che si è limitato ad annunciare che L’Aquila potrebbe diventare patrimonio universale dell’Unesco, rinviando di fatto la soluzione del problema. Luciano Marchetti, vicecommissario alle opere d’arte, rende noto che bisogna fare in fretta ma i soldi non ci sono: «Molte chiese lesionate sono in stato di abbandono perché non abbiamo più fondi, mancano sette milioni di euro per completare puntellamenti e messa in sicurezza». E ai soldi che non arrivano si aggiungono anche i debiti. La Protezione civile deve ancora pagare una parte degli albergatori per l’ospitalità degli sfollati nelle strutture ricettive. Ma sono molte anche le ditte che vantano crediti per lavori eseguiti nella prima emergenza. In particolare, sono tantissime le piccole imprese locali che si sono indebitate per diversi milioni di euro e che rischiano di fallire proprio per i ritardi nei pagamenti da parte di Protezione civile ed enti locali. Anche i rimborsi agli sfollati per l’autonoma sistemazione sono fermi a marzo. E ora rischia di abbattersi, su un territorio e una popolazione martoriata dal terremoto e dal dipartimento, anche la mannaia della restituzione delle tasse sospese.

25 giugno 2010

Su LEFT-AVVENIMENTI

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