Intervista al prof Fiorenzo Toso: La lingua parla per noi

Redazione
Redazione
15 Minuti di lettura

Sull’abbrivio dell’ultima uscita – e del discorso da egli svolto sul bizzarro fenomeno della prevalenza dell’accadico e del novello imperio della fantaetimologia nella Marsica – Enzo Santilli da Venere ha realizzato un’intervista con il professor Fiorenzo Toso, professore di linguistica presso l’Università di Sassari, figura della massima autorevolezza per lavori scientifici chiusi e argomenti trattati (basti citare la curatela de «le lingue sotto il tetto d’Italia» per Treccani).

In questa interessantissima intervista il professor Toso, da accademico, affronta molti aspetti sui quali dovremmo riflettere attentamente; tra i quali aspetti, ci pregiamo segnalare, quei passaggi sull’ambivalenza dell’utilizzo del dialetto e della sua glorificazione acritica, dopo tanta censura: fenomeno, quello del dialetto, che è politico e di costume, e andrebbe, ci permettiamo ulteriormente e modestamente di chiosare, attentamente governato e riflettuto, onde evitare (ri)cadute nel pensiero magico, nell’antiscientificità, nell’uso improprio dell’analisi dei fenomeni linguistici o comunque alla loro riconduzione a passatempo o bricolage.

Intervista da conservare, oseremmo dire e consigliare, ad onta della carta fisica sulla quale essa risulta stampata. Buona lettura (fmb)

Iscrizione del re Achemenide Dario – Persiano antico, Cuneiforme alfabetico (1100-1000 a.C.)

Professor Toso, innanzitutto grazie per aver accettato di partecipare a questa intervista.

È sempre un piacere riscontrare interesse per dei temi linguistici.

Lei è di origini liguri. Lo sa che uno dei nostri concittadini più illustri, Ignazio Silone, trascorse un breve ma fondamentale periodo della sua vita in Liguria? Fu dopo il terremoto marsicano del 1915, Don Orione lo ospitò in un suo collegio di Sanremo.

Onestamente lo ignoravo. Di Silone ho letto e apprezzato le cose fondamentali, ma non ne ho mai approfondito la biografia. Il Ponente ligure fu sempre solidale con le popolazioni colpite dai terremoti, in memoria del disastroso evento che colpì il territorio nel 1887,e che investì anche Sanremo, o, come si dice localmente, Sanrömu.

A proposito di Sanremo, perché si scrive tutto attaccato?

La risposta gliel’ho appena data. Curiosamente, il nome della città non è riferito a un inesistente San Remo, bensì a uno storico San Romolo da Genova, vissuto nel V secolo, il cui nome nella pronuncia ligure ponentina fu appunto Römuru, abbreviato poi in Römu. Per questo, nell’italianizzazione subita dal toponimo, constatata l’inesistenza de presunto “San Remo” prevalse una forma che annullava il riferimento religioso, e Sanremo divenne la forma usuale. Certo è un po’ buffo per noi che un originario Romolo sia diventato proprio un… Remo, diciamo che sono gli scherzi della lingua, e in fondo è una specie di rivalsa storica per il più sfortunato dei due figli della lupa.

Vorremmo parlare con lei, che è studioso di linguistica ed esperto di lingue di minoranza, di lingue parlate sul suolo nazionale ma diverse dall’italiano. In una situazione come quella marsicana, in cui la varietà dialettale è ricchissima ma non c’è una diffusa consapevolezza di quanto questa cosa sia importante, come possono i singoli cittadini, la comunità e le istituzioni valorizzare i dialetti locali senza scadere in manifestazioni più dannose che utili alla salvaguardia della lingua?

Acquisendo appunto quella consapevolezza. Fino a tempi recenti il “dialetto” era un obbligo, non una scelta: un uso linguistico che ti confinava fuori dalla storia, fuori dall’economia, fuori dal “progresso”. Oggi, a mano a mano che l’acquisizione generalizzata dell’italiano è un dato di fatto, per quanto lo spazio riservato al “dialetto” si sia fatto più limitato, esso può comunque mantenere e recuperare funzioni, comunicative e no, di rilievo, nel momento in cui lo si sceglie e lo accetta come elemento di ricchezza espressiva, come patrimonio culturale. Per questo è importante fare una corretta informazione sulle parlate locali, evitando i rigurgiti puristici e dialettofobi da cui è ancora affetta una parte dell’accademia italiana, evitando al tempo stesso la “fuga” nel “dialetto” come fenomeno regressivo di chiusura identitaria fine a se stessa. Il valore della pluralità linguistica deve entrare a far parte del nostro orizzonte culturale così come, ad esempio, siamo ormai consapevoli dell’importanza della biodiversità.

In linguistica così come in altre discipline per arrivare alla (o a una) verità è fondamentale il metodo d’indagine scientifico. Ci può spiegare in cosa consiste? Cosa fa di un linguista un bravo linguista?

Chiedere cosa fa di un linguista un bravo linguista, a un linguista, è come suggerirgli che lui stesso lo sia, e questo è un inizio non buono. Un linguista – soprattutto, come nel mio caso, se si occupa di linguistica storica – deve anzitutto imparare a esercitare l’arte del dubbio e a non dare nulla per scontato, soprattutto le proprie capacità di interpretazione dei fatti. La linguistica non è una scienza esatta (per fortuna, vorrei aggiungere), circostanza che impone un rigore se possibile ancora più estremo, nei processi cognitivi, di quel che avviene per la matematica o per la fisica, poniamo. Proprio perché i margini interpretativi sono aperti, nell’analisi di un dato linguistico occorre avere l’umiltà, appunto, di avvicinarsi ai fenomeni senza preconcetti o senza soluzioni predeterminate. Ci sono troppe variabili, nei fatti di lingua, perché si possa pretendere di avere in tasca la soluzione a un determinato problema.

L’impressione che si ha dall’esterno è che di lingua, poiché è una cosa che usiamo tutti, ne può parlare chiunque. A un non linguista sembra quasi che il metodo scientifico non sia così fondamentale per trattare dei fatti di lingua. Perché avviene questo?

La lingua esercita un’attrazione fortissima, forse perché è uno degli elementi che determinano la nostra unicità come specie. La nostra capacità di comunicare, di sviluppare il linguaggio nelle sue diverse declinazioni storico-naturali hanno sempre sollecitato risposte, tentativi di spiegarne le caratteristiche: dalla Bibbia in poi, il tema dell’unità del linguaggio (in principio era il Verbo) e della sua varietà (l’episodio della Torre di Babele) rappresentano uno dei principali oggetti di speculazione religiosa e filosofica. È comprensibile pertanto che ciascuno abbia da dire la sua, e siccome tutti siamo implicati nel linguaggio, tutti siamo convinti di poterne dare un’interpretazione, sia a livello generale, sia su singoli aspetti, anche “minimi”. Nel momento in cui individuiamo l’origine di una persona a partire dalla sua inflessione dialettale, ad esempio, stiamo facendo linguistica. Considerando la ricchezza del patrimonio linguistico nazionale si capisce così perché gli italiani, oltre che un popolo di commissari tecnici, siano anche un popolo di linguisti. Ma occorre saper distinguere tra la libera ed estemporanea interpretazione di un fatto linguistico e il lavoro scientifico che richiede, come dicevamo prima, metodo, capacità critica e solide basi. Ciascuno può dire la sua, ma le opinioni non hanno tutte lo stesso valore, come per qualsiasi altro campo del sapere.

Viviamo nell’epoca delle fake news, delle bufale, delle storie inventate ad arte per il solo intento fare clamore.Anche in linguistica esistono i ciarlatani e isantoni? Mi riferisco a quelle figure che, pur non avendo una salda conoscenza accademica di una materia, a un certo punto sostengono di aver avuto l’illuminazione del secolo.

È proprio quello che stiamo dicendo. Oggi in particolare, poi, per il pubblico medio può essere difficile distinguere i ruoli, e il lavoro di attento scavo erudito di un maestro della filologia può essere facilmente affiancato dalle esternazioni di qualsiasi “ciarlatano”, come dice lei, che infarcendo magari i propri discorsi con un po’ di terminologia d’accatto, finisce per rendersi credibile: il web, soprattutto, appiattisce la capacità critica e il riconoscimento e il rispetto delle competenze, delle professionalità. Questo è sempre successo, del resto, ma oggi, con la fluidità dei saperi, con la circolazione dell’informazione (che non è di per sé condivisione di sapere e cultura), si fa presto a dar da bere qualsiasi panzana. E spesso i linguisti (non solo loro, del resto) sono costretti a perdersi in spiegazioni su cosa consista l’assurdità di certi luoghi comuni recentemente consolidati, sottraendo tempo e risorse alle proprie ricerche. Senza essere un fanatico dei curriculum (ci sono ottimi linguisti non accademici), un minimo di attenzione alle fonti delle informazioni che circolano andrebbe sempre esercitata.

Ci può fare qualche esempio, raccontare qualche aneddoto?

Avrei diversi episodi da raccontare. In Sardegna, dove lavoro, circolano cultori di fantalinguistica che fanno derivare il latino dal sardo (sic!) e che basandosi su banali assonanze vanno a cercare l’origine dei nomi di luogo di origine preromana in lingue remote cronologicamente e geograficamente come il sumerico o l’albanese, senza la minima verosimiglianza di un rapporto storico tra l’isola e le terre in cui si parlarono o si parlano questi idiomi. In Liguria, in un paese dell’entroterra, fui quasi costretto alla fuga quando i cittadini locali, nel corso di una conferenza, mi sentirono candidamente affermare che il loro dialetto derivava dal latino:erano convinti di parlare… fiammingo sulla base delle illazioni di un erudito che alla fine dell’Ottocento aveva immaginato un’emigrazione dai Paesi Bassi in quell’angolino di montagna ligure. La cosa buffa è che “solo loro” parlavano fiammingo, anche se la parlata era pressoché identica a quella dei paesi circostanti, e per di più avevano una vaga cognizione di cosafosse il fiammingo, lingua germanica, ritenendolo una varietà del francese! In altri casi, ci si trova di fronte a vere e proprie mistificazioni. Poiché la legge sulle minoranze linguistiche dal 1999 elargisce qualche finanziamento, molti amministratori comunali “fiutano” l’affare e dichiarano una inesistente appartenenza dei loro concittadini a questa o quella minoranza linguistica. A me è capitato di smascherare ad esempio il caso dei finti occitani di Realdo, Verdeggia e Olivetta San Michele, in provincia di Imperia, ma in un paese dove prosperano falsi ciechi e finti invalidi, persino gli amministratori di una grande città come Messina hanno avuto la faccia tosta di affermare che vi si parla greco!

Si deve diffidare dalle loro affermazioni? Se sì, perché?

È assolutamente indispensabile smascherare queste mistificazioni, soprattutto quando celano, come negli esempi che ho appena citato, interessi poco limpidi, ma anche nel caso di “invenzioni della tradizione” apparentemente più innocue. Non solo per amore della verità, ma perché la diffusione di una informazione errata o fantasiosa su aspetti del patrimonio linguistico sfocia spesso e volentieri in affermazioni di eccellenza o esclusività che portano all’erezione di assurdi e anacronistici steccati: “noi discendiamo dagli accadi, e quindi siamo migliori degli altri”, “noi abbiamo ereditato la cultura dei celti o dei longobardi, come dimostra (?) la nostra lingua”: il passaggio dalla linguistica alla politica spesso è molto rapido, e questi fenomeni si sedimentano nel tempo diventando elementi di disturbo a una corretta fruizione del patrimonio storico-linguistico dei territori.

Come può il comune cittadino difendersi dalle bufale linguistiche, storico-linguistiche ed etimologiche? Come si riconoscono?

Esercitando, ancora una volta, un minimo di senso critico. Se ad esempio un nome di luogo trova una facile spiegazione nella lingua corrente, o nel latino dalla quale essa deriva, è assurdo arrampicarsi sugli specchi andando a cercare inverosimili radici esotiche. In linea di massima, senza nulla togliere al lavoro rigoroso di molti ricercatori amatoriali, l’avallo di un linguista professionista mette al riparo dal rischio di interpretazioni eccessivamente “creative” dei fatti linguistici. Tra un farmacista e un dialettologo, dal primo conviene farsi consigliare le pastiglie per la tosse, dal secondo farsi raccontare un’etimologia. I cultori locali possono svolgere un’opera preziosissima di raccolta e catalogazione, possono redigere proficuamente vocabolari dialettali, raccolte di toponimi e altro ancora, ma senza studi coerenti conviene (e molti, dotati di onestà intellettuale, lo fanno) passare poi la mano ai professionisti quando si tratta di fornire chiavi di lettura e interpretazioni. Oppure, armarsi di santa pazienza e affrontare umilmente un percorso di formazione che metta in grado di elaborare analisi convincenti dei fatti linguistici, evitando di basarsi sul fascino delle assonanze, ad esempio, o sulla volontà di nobilitare a ogni costo il passato del territorio andando a pescare improbabili ascendenze linguistiche.

Grazie mille.

Grazie a lei per la stimolante chiacchierata.

Tratto da Il Martello del Fucino 2019-5 – Scarica QUI il Pdf

Condividi questo articolo