FRAMMENTI [ 6 ] – A L’Aquila l’erba cresce alta

Redazione
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Tempera, 2009

articolo originale 15 novembre 2009

Cresce alta l’erba per certe vie dell’Aquila. Sulla scalinata che porta alla chiesa, erbacce selvatiche raggiungono il metro di altezza. Quegli scampoli di natura che ognuno di noi almeno una volta nella vita ha osservato con tenerezza farsi strada nelle pieghe delle città, nella città abbandonata prendono il sopravvento. E mentre sui terrazzi le piante addomesticate sono ormai poveri scheletri marroni, al pari delle mura che custodivano le vite dei loro proprietari, per le strade la natura con forza meno impetuosa, ma altrettanto determinata che “in quella notte”, si fa strada.”In un sabato d’agosto ho visto dei ragazzi in abiti civili, probabilmente residenti che erano riusciti ad infiltrarsi nella zona rossa, strappare le erbacce dalle strade”, racconta quasi commossa una ragazza, sorpresa da questo estremo gesto di cura per la città sconfitta. Poco distante, gli uomini continuano nel loro naturale processo di dominio sulla natura creando cittadelle di nuova costruzione laddove prima c’erano campi, risaie, acquitrini.

Questo gioco di contrasti, di complementarietà continua, permea tutta la vita terremotata. E se le case si offrono ad ogni angolo in una nudità quasi oscena, di fronte alla quale viene spontaneo ritrarre lo sguardo, le severe tende scure custodiscono mondi in pochi metri quadrati. Tanto è semplice frugare con lo sguardo nelle vite antecedenti il 6 aprile, tanto questa tela blu protegge da occhiate indiscrete la vita che ne è seguita. “Non chieda di entrare nelle tende, la popolazione non ha piacere”, mi avverte un volontario all’ingresso del campo di Piazza D’Armi.
Ci mancherebbe, mica si entra a casa di uno sconosciuto semplicemente dicendo “scusi, posso entrare a casa sua?”. Però nel più piccolo campo di Fossa, che è il riflesso di un paese della provincia abruzzese, qualcuno è felice di farti entrare nella sua tenda. Orgoglio di una apparente riconquistata normalità.

In tutti i campi, anche i più grandi del centro dell’Aquila, il controllo agli ingressi è severissimo, si accede soltanto con autorizzazione e sempre mostrando il proprio tesserino. Ma all’interno del campo le tende non hanno alcun sistema di chiusura o sicurezza. Non ci sono nemmeno cassettiere o piccoli armadi con lucchetti dove le persone possano custodire le cose preziose, o care, che gli sono rimaste. Nonostante questo, pare che i furti siano un problema assolutamente marginale, non sentito dagli abitanti. Certo c’è chi ha più paura, chi ne ha meno, ma l’idea che qualcuno possa entrare a rubare viene più che altro a chi, come me, viene da fuori. E così capisco che anche questa categoria del pensiero deve essere rivista, qui dentro.

In questi pochi metri quadrati in cui persone talvolta estranee hanno dovuto improvvisare una vita comune ciascuno ha riportato un po’ della sua normalità. C’è la tenda dell’anziana signora che all’ingresso ha messo una tenda bianca ricamata e di pizzo, retaggio di un’ormai passata vita di paese; c’è il crocefisso sopra all’apertura che affettuosamente si continua a chiamare “porta” (difficile reinventare un linguaggio, anche se su questo ci sarebbe da dire…), c’è la tenda dei ragazzi con lo stereo o una piccola televisione in un angolo, sempre accesa. Ho visto anche una signora ostinatamente spazzare il fazzoletto d’asfalto davanti alla sua tenda.

Sembra di vedere, insomma, un tentativo di “normalizzazione” di questa vita da accampati, che però si ferma sempre un po’ prima di realizzarsi del tutto. Anche in questo caso, la ricerca di una dimensione quotidiana custodisce il suo contrario: un certo contegno, un certo distacco, una sorta di sospensione che si intravede tra le persone, che non vogliono assolutamente arrendersi a questa vita che sanno dovrà rimanere temporanea.
L’Aquila, 10 agosto 2009

Camilla Endrici
[ camilla.endrici@libero.it ]

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