Far West sull’Appennino. La montagna come ultima spiaggia

Redazione
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A Fontamara, questo è noto, una sola era la terra agognata: quella di Fucino.Nel momento in cui il sogno ha rivelato, con la riforma agraria, il suo vero volto, ci si è accorti che poche coppe non potevano costituire il rimedio ai mali sofferti, ed i paesani hanno mestamente abbondonato l’altipiano a sambenedettesi e trasaccani, decidendo di sostituire la avita agricoltura di sussistenza e autoconsumo con la speranza di un futuro migliore, recandosi ad esercitare mille mestieri nelle città italiane che andavano approssimandosi all’effimero boom economico.Chi è rimasto si è riconvertito nel colossale apparato pubblico e dei servizi, mentre una minoranza ha testardamente proseguito, nonostante tutto, ad esercitare il mestiere dei propri avi, seminando – più con il sudore che con l’ausilio di qualche modesto mezzo meccanico – quelle terre del fuori Fucino leopardianamente sempre matrigne. Ad aggirarcisi, oggi, si ha la netta impressione che un mondo sia giunto al termine, ed anche l’implosione dell’ingegnoso sistema di irrigazione – creato a suo tempo dirottando l’acqua dal fiume Giovenco – è lì a testimoniare che ci si trova alla vigilia del definitivo tramonto, dovuto a ragioni soprattutto anagrafiche, di una millenaria tradizione contadina.

Nel sonnecchiante sottobosco della politica locale, tra compagni amici e compari, ci si è sempre limitati ad assecondare l’andazzo, senza agitarsi più di tanto, ché tanto il corso di certi processi, questo ben lo si sa, non si può di certo arrestare o deviare.

Senonché, da una decina di anni, a Fontamara c’è chi va sostenendo che la vera ricchezza che potrebbe porre un argine ad un futuro di spopolamento è quella costituita dalle montagne che fanno da corona al paese. Sì, proprio le montagne. Ai tempi dei nostri nonni, per la disperazione e la fame, si era persino tentato di adibirle a qualche coltura, senza ricavarne altro che le mortificazioni e le fatiche così bene raffigurate in certe tele del Patini. Ora si scopre che, senza troppo sforzo, potrebbero concedersi alle iniziative commerciali che vanno affluendo sulle nostre balze, balze da tempo immemorabile insuscettibili di qualsivoglia utilizzo e abbandonate financo dalle pecore e dalle capre. Persino quelle riforestate vanno richiedendo (ripopolarle di alberi altro non era che un palliativo per la disoccupazione dei locali, questo si sa) che fortuna!

Cave, che ci sono sempre state, ma anche parchi eolici, opifici, il fotovoltaico (perché no?). Al punto che quasi non residua spazio per allocare le antenne per la telefonia. Una vera febbre, una corsa all’oro, un’occupazione del territorio che si era vista solo in certe pellicole western. Nel più puro stile fontamarese, non manca nemmeno la commedia e, improvvisamente, una intera montagna, quella immediatamente a picco sul vecchio centro, si scopre usucapita da un signore che avrebbe in animo di realizzare un villaggio resort (ma questo, è ovvio, rappresenta un accidente del progresso; ed ha il pregio di dare un poco di pane agli avvocati di Fontamara).

L’unica nota stonata è che in dieci anni – nel corso dei quali le dinamiche del potere locale si sono progressivamente confuse e frammiste a tali e tante iniziative economiche, uscendone tanto disarticolate quanto succubi – di occupazione in termini di lavoro se ne è vista pochissima, ed i saldi demografici e residenziali di Fontamara continuano ad essere, ad onta di declamazioni trionfalistiche, negativi. Ed i fontamaresi sempre più pessimisti: quando l’altra settimana il sindaco ha annunziato la creazione di cento posti di lavoro nessuno ha pronunziato motto, se non per paventare che tra poco per Pescina sarà necessario un flusso ad hoc di manodopera importata.

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