Emergenza Coronavirus – VIAGGIO DI RITORNO

Redazione
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VIAGGIO DI RITORNO

scritto da Francesca Recchia

Sono rientrata a Milano poche ore prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisse il Coronavirus una pandemia, in un bel giorno di sole con un gran silenzio e l’aria pulita.

A Kabul, i miei colleghi continuavano a dirmi che non mi avrebbero lasciato partire perché sarei stata più al sicuro lì che in Italia. Ne abbiamo riso; il mio, in realtà, un riso amaro pensando alla completa mancanza di mezzi che caratterizza il paese. Se (o quando?) il virus dovesse arrivare in maniera aggressiva in Afghanistan, è difficile immaginare cosa possa succedere visto che in tutto il paese esistono un solo centro in grado di testare i tamponi e un solo ospedale vagamente attrezzato per la gestione dell’emergenza. Oltre a questo, ci sono centinaia di migliaia di rifugiati interni che vivono in campi profughi in condizioni igieniche miserabili, senza documenti né accesso ai servizi medici di base. È di oggi, poi, la notizia che diecimila Afghani sono rientrati in Afghanistan dall’Iran: dove sono? Come stanno? Ci sarà modo di verificare le loro condizioni di salute?

Grazie al privilegio della mia situazione, ho potuto valutare cosa fosse meglio per me e decidere di tornare a casa – un lusso che non è concesso a molti. Eppure, al netto di tutti i miei grandi privilegi, tornando ho avuto un sentore di cosa possa significare spostarsi con l’idea di avere “il passaporto sbagliato”.

Per l’inseguirsi di notizie e la fluidità della situazione, fino all’ultimo momento non era chiaro quali sarebbero state le condizioni per il rientro. Ho riempito tutti i moduli, stampati tutti i documenti e sono partita piena di incertezze, con la sensazione di aver fatto o poter fare qualcosa di sbagliato.

In transito a Dubai, pensavo di passare la notte in città; arrivata al controllo, mi hanno bloccata e mi hanno mandata all’ufficio immigrazione. Lì mi hanno preso il passaporto senza darmi spiegazioni e mi hanno messo in attesa – ho chiesto per quanto, mi hanno detto che non sapevano e, senza neanche alzare gli occhi, hanno ripreso a fare quello che stavano facendo.

È stato un momento illuminante. La situazione di impotenza di fronte al non sapere mi ha aperto gli occhi. Con tutte le dovute differenze, e con la consapevolezza che i miei privilegi mi lasciano sempre una via d’uscita, ho avuto un bagliore di quello che affrontano tutti coloro che si muovono per necessità o per piacere e che, per accidente del destino, hanno un passaporto, un nome, un’affiliazione religiosa “sbagliata”. Il senso d’incertezza è estenuante; la consapevolezza di aver ricontrollato i documenti cento volte non vince la paura di aver tralasciato qualcosa; l’ansia che il burocrate possa essere di cattivo umore e che tu possa essere arrivato il momento sbagliato toglie le forze. E l’attimo che ti prendono il passaporto, l’unica garanzia: Per quanto? Perché? La paura e il senso di impotenza tolgono il respiro.

L’idea che questo è il trattamento che imponiamo a chi cerca una condizione di vita migliore, a chi fugge da guerre e persecuzioni, mi ha dato un grande senso di vergogna. Gli interessi e la paura ci stanno facendo perdere l’umanità.

Spero che questa crisi ci faccia riflettere e che il tempo dell’isolamento sia anche un tempo per pensare. Spero che alla fine di questo grande cataclisma ci (ri)scorpiremo umani e solidali.

Francesca Recchia è una ricercatrice e scrittrice indipendente che ha lavorato e insegnato in diverse parti del mondo fra cui India, Iraq, Afghanistan, Olanda, Italia, Svezia, Pakistan, Palestina. Si occupa principalmente della dimensione geopolitica dei processi culturali e negli ultimi anni si è concentrata in particolare sulle pratiche creative nei paesi in conflitto.

Il suo è un lavoro radicalmente interdisciplinare che combina studi visivi, sociali, culturali e postcoloniali. Francesca Recchia è stata Postdoctoral Research Fellow alla Bartlett School of Planning, University College of London, ha un dottorato in Cultural Studies all’Università Orientale di Napoli e un Master in in Visual Cultures al Goldsmiths College, University of London. Collabora con Domus, ed è autrice di articoli e saggi accademici.

Attualmente dirige L’Istituto afgano di Arte e Architettura a Kabul.

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