Dopo terremoto in Emilia: la memoria nel cassetto

Redazione
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Nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa trentamila persone. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso. Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera.

Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie.

Non è dunque da stupire se quello che avvenne dopo il terremoto, e cioè la ricostruzione edilizia per opera dello Stato, a causa del modo come fu effettuata, dei numerosi brogli frodi furti camorre truffe malversazioni d’ogni specie cui diede luogo, apparve alla povera gente una calamità assai più penosa del cataclisma naturale. A quel tempo risale l’origine della convinzione popolare che, se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà in un terremoto o in una guerra, ma in un dopo-terremoto o in un dopo-guerra.

Un mio conoscente, licenziato da uno di quegli uffici statali incaricati della ricostruzione, mi rivelò un giorno un certo numero di dati precisi che costituivano altrettanti reati degli ingegneri suoi ex colleghi. Assai impressionato, mi affrettai a parlarne con alcune persone autorevoli, che conoscevo come probe e oneste, perché denunziassero i crimini. Non solo quei galantuomini da me consultati non ne contestavano l’autenticità, ma essi stessi erano in grado di confermarla; tuttavia mi sconsigliarono di “impicciarmi di quei fatti”, e aggiungevano affettuosamente: «Devi terminare gli studi, devi crearti una posizione, non devi comprometterti in affari che non ti riguardano,» «Volentieri» rispondevo. «Certo è preferibile che la denunzia non parta da un ragazzo di diciassette anni, ma da persone adulte e autorevoli.» «Noi non siamo mica pazzi» mi rispondevano indignati. «Noi intendiamo occuparci unicamente dei fatti nostri e di nient’altro.»

Ne parlai allora con alcuni reverendi sacerdoti, e anche con qualche parente più coraggioso, e tutti, rivelandomi di essere più a meno al corrente di quelle turpitudini, mi scongiuravano di non intromettermi in quel vespaio, di pensare agli studi, alla carriera, all’avvenire. «Con piacere», rispondevo «ma qualcuno di voi è disposto a denunziare i ladri?» «Non siamo matti» essi mi rispondevano scandalizzati. «Sono affari che non ci riguardano.»

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Cominciai allora a riflettere seriamente sull’opportunità di promuovere, con qualche ragazzo, una nuova “rivoluzione” che si concludesse in un bell’incendio degli uffici; ma il conoscente che mi aveva fornito la documentazione sulle malefatte degli ingegneri mi dissuase dal farlo, per non distruggere la prova stessa dei reati. Egli aveva più anni e più esperienza di me; e mi suggerì di formulare la denuncia su qualche giornale. Ma quale giornale? «Ve n’è uno» il mio conoscente mi spiego «che può avere interesse a ospitare una simile denuncia, è il giornale dei socialisti.» Fu così che io scrissi tre articoli (i primi articoli della mia vita) per esporre e documentare minuziosamente i loschi affari degli ingegneri statali nella mia contrada, e li spedii all’«Avanti!». I primi due articoli furono subito stampati e suscitarono grande scalpore presso il pubblico dei lettori, ma nessuno presso le autorità. Il terzo articolo non apparve, come seppi più tardi, per l’intervento presso la redazione di un autorevole avvocato socialista. In tal guisa appresi che il sistema d’inganno e di frode che ci opprimeva era assai più vasto di quello che appariva, e aveva invisibili ramificazioni anche tra i notabili del socialismo. La parziale denuncia, avvenuta di sorpresa, conteneva però materia per vari processi, a almeno per un’inchiesta ministeriale; invece non accadde nulla. Da parte degli ingegneri, da me denunziati come ladri e accusati di fatti esplicitamente indicati, non vi fu neppure il tentativo di una rettifica o di una generica smentita. Dopo una breve attesa, ognuno tornò a pensare ai fatti propri.

Lo studente che aveva osato lanciare la sfida fu considerato, dai più benevoli, ragazzo impulsivo e strambo. Bisogna tener conto che la povertà economica delle province meridionali offriva scarse possibilità di sviluppo ai giovani che ogni anno a migliaia uscivano dalle scuole. La sola nostra grande industria era allora l’impiego di Stato. Ciò non richiedeva eccezionali qualità d’intelligenza, ma docilità di carattere e conformismo politico. I giovani meridionali, cresciuti in un ambiente come quello, se avevano un minimo di fierezza e una qualche umana sensibilità, tendevano naturalmente all’anarchia e alla rivolta. L’accesso all’impiego di Stato comportava dunque per essi, ancora sulla soglia della gioventù, una rinunzia, una capitolazione, e la mortificazione dell’anima. Perciò si usava dire, ed era il vero fondamento della società meridionale: anarchici a vent’anni, conservatori a trenta.

Ignazio Silone, Uscita di sicurezza

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