Cam S.p.A. – Circoscrivere l’area del delitto: da dove a dove

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
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Zompo lo schioppo, rito di purificazione, 15 maggio 2005

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Sperone Logaritmics

(4/100 – continua)

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C’è chi scherza, sul disastro del Cam S.p.A., e sostiene, nei crocicchi e dove amabilmente si discute di tutto e di nulla, che di casi simili a quelli dell’acqua di casa nostra ve ne sono molti, altrettanto pesanti se non di più, in giro per l’Italia: che so, la municipalizzata romana dei trasporti produce, da dieci anni, per ogni singolo anno di vita, cento milioni di euro di debiti, ovvero ogni anno produce un deficit economico di bilancio rilevante quanto il buco complessivo del Cam S.p.A.; eppure, alla fine, i bus viaggiano comunque! E ora, aggiungono sornioni i medesimi benpensanti, sulla richiesta di concordato per Atac, il consiglio comunale di Roma Capitale – la notizia sta facendo scalpore – avrebbe in animo di fare marcia indietro!

CAM bando pescina 1932Peccato che chi parla così ometta di precisare che tale insana idea, di recedere dal concordato Atac, derivi dal retro-pensiero di poter rimettere in piedi l’azienda dei trasporti attraverso una massiccia e dopante quantità di risorse erogate, da un ipotetico Governo amico, per la Capitale, mentre noi, nella Marsica, di amici a Roma non ne teniamo e di simili sollecitudini non saremo mai oggetto, in quanto demograficamente (e più ancora politicamente e per elaborazione) del tutto insignificanti. Peccato pure che chi avvelena ancora i pozzi della discussione – che dovrebbe finalmente concentrarsi su quale servizio idrico si voglia progettare per il futuro sui nostri poveri monti, e attraverso quali mezzi risorse e veicoli – legga sì le cronache romane de “Il Messaggero” ma non quelle locali abruzzesi, cosicché nel mentre a Caruscino, località ove ha sede la indagatissima quanto bestemmiatissima struttura del Cam S.p.A., centoventi dipendenti diretti temono per il loro futuro e angosciati assistono al silenzio tombale sul destino del Consorzio, a Lanciano, è notizia di ieri, sessantasette contratti a tempo determinato vengono avviati al lavoro dalla omologa SASI di Lanciano, nel tentativo di invertire, almeno lì, nella Frentania, la epocale deriva presa dal servizio idrico integrato. Non è proprio la stessa cosa.

All’esordio di queste modeste trattazioni ci eravamo posti le domande delle cento pistole:

  • come è stato possibile produrre un mostruoso debito che sfiora, per qualcuno, i cento milioni di euro di buco?
  • Quali prassi, quali sfortune, quali e quanti abusi, quante connivenze hanno condotto il sistema al collasso?

Fatto salvo il mero caso o l’azione di cause esterne e ineluttabili (del tipo, queste ultime, della scarsa remunerazione delle tariffe, decise da un’Autorità e non in sede locale, e non in funzione della copertura dei costi), accontentandosi delle quali è evidentemente inutile proseguire nella lettura, il primo passo per tentare di fornire uno straccio di risposta a simili gravosi interrogativi è quello di determinare da quando il sistema è divenuto tale, ovvero il momento nel quale esso si è trasformato, ha cominciato ad inverarsi, nella macchina infernale della quale commentiamo le inefficienze e le nefandezze.

Per ragionare di ciò, speculare se il sistema sia impazzito più per difetto suo proprio o per dolo della cosiddetta “politica” o per concomitanti cause accidentali occorrerà tornare a bomba, ricostruendo il percorso storico attraverso il quale un insieme di diverse attività – captazione, adduzione e distribuzione del bene primario acqua – che una volta venivano svolte singolarmente dai municipi e da varie istanze della collettività sono state ricondotte alla responsabilità di un unico soggetto tecnico-giuridico. Il tema è quello della primigenia idea – del tutto condivisibile, ad onta degli esiti – dell’accorpamento delle responsabilità della fornitura di acqua ad usi civili nonché di quello di fognatura e depurazione delle acque reflue e alla sua delegazione, attraverso un ente d’ambito, ad un’istanza chiamata così ad operare su territori molto vasti, e necessitata, cessando gli enti locali dalla gestione dei propri servizi idrici, a dotarsi di proprie strutture.

Un percorso che non promettiamo breve. Non partiremo dall’acqua condotta nell’eponima piazza dalla famiglia Torlonia, ad Avezzano, prima dell’epocale terremoto, onde tacitare le ultime rivendicazioni sulla demanialità dell’alveo del Fucino da parte del ceto dirigente locale. Né ci intratterremo molto sulla curiosità che la moderna concezione di distribuzione di acqua per le singole utenze civili, nelle case, si sia inverata a Pescina, sempre prima del 13 gennaio 1915, attraverso l’impianto idroelettrico sul Giovenco attraverso la sorgente La Cosa e l’acqua strappata a Bisegna, con tanto di contratti che nulla avevano da invidiare, anche per esosità, a quelli odierni. Ma almeno sulla Cassa per il Mezzogiorno occorrerà soffermarsi, per comprendere quale patrimonio di conoscenze e di strutture sia stato depauperato in venticinque anni di gestione, che doveva proiettarci nella modernità ma che si è rivelata, nelle nostre plaghe desolate, anche per l’eterogenesi dei fini che tutto domina, fomite di ogni possibile subornazione di scopi mezzi ed obiettivi.

(4/100 – continua)



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