Breve cronaca di un morbo antico – Epidemia nella Marsica: nel ‘600 dimezzata la popolazione

Redazione
Redazione
8 Minuti di lettura

di Sergio Natalia

Breve cronaca di un morbo antico

L’improvvisa irruzione nelle nostre vite del Covid 19 ha ridestato in tutti noi timori ancestrali. Il Coronavirus è un morbo invisibile che richiama epoche antiche. Come se l’orologio della storia, improvvisamente ridiventata grande – altro che fine della storia -, avesse ingranato la retromarcia.

Fino agli inizi dell’anno a spaventarci erano i parassiti virtuali, i virus che potevano intaccare la nostra protesi: il computer. Per tutti noi, ormai immersi nel mondo virtuale, la parola virus configurava un contagio informatico, propagato da hacher untori. E invece, il repentino irrompere del Coronavirus nella nostra quotidianità ha riportato il termine virus all’antico significato, spingendoci a guardare indietro e a riflettere su analoghi eventi del passato. Anche se il Coronavirus, come dicono i virologi – le star del momento – somiglia alla “spagnola”, stranamente risveglia nel nostro inconscio un’altra grande epidemia: la peste. La Yersina Pestis seppur più lontana nel tempo, sembra far vibrare corde più sensibili, risvegliare ataviche paure, forse perche tutti abbiamo letto Manzoni, da molti evocato e citato in numerosi messaggi w.a. onnipresenti sulla sempre più ingolfata “rete”, ormai diventata frequentata “agorà virtuale”. Come durante la peste la chiesa declinava la malattia come castigo divino, così oggi “Radio Maria”, ascoltatissima emittente cattolica, nel febbraio del 2020 imputava il Coronavirus alle colpe dell’umanità verso Dio (cfr. E. Gentile “Pandemiche superstizioni”, Il Sole 24 ore, 05.04.2020).

L’ultima grande epidemia di peste che falcidiò il nostro Abruzzo risale al 1656-1657. La peste dalla Sardegna “sbarca” a Napoli – nell’allora capitale del regno si registrano 200.000 morti su 450.000 abitanti – da dove si propaga, seguendo diverse strade, in tutte le province meridionali, arrivando in poco tempo anche negli Abruzzi, la zona più settentrionale del reame. A Castel di Sangro, porta dell’Abruzzo Ultra verso la capitale, si diffonde nel luglio del 1656, portata dai molti che fuggivano da Napoli.

Dal focolaio di Castel di Sangro il morbo si dirama in tutto l’Altipiano delle Cinque Miglia. A Pescocostanzo ci furono circa 1.300 morti su poco più di 2.000 abitanti. I sulmontini, invece, facendo tesoro della negativa esperienza delle pestilenze del 1347 e del 1479, chiusero le porte, dove misero guardie armate per controllare scrupolosamente tutti i viaggiatori, e restarono immuni dal pericoloso contagio. Intanto la peste si diramava a Popoli e da qui nella Valle del Pescara e, risalendo l’Aterno, a Raiano, decimato dal contagio, e Tione. Dall’area Subequana il morbo attecchisce nella zona del Tirino. Ad Ofena le macabre scene di morte sono dettagliatamente raccontate da un frate cappuccino di Canistro. I cappuccini abruzzesi ebbero un importante ruolo di assistenza alle popolazioni durante il contagio, come racconta con dovizia di particolari nel suo bel libro del 2006 – fondamentale riferimento per scrivere questo articolo – il frate cappuccino di Trasacco, Luigi Del Vecchio. Nel tragitto da Popoli a L’Aquila la peste si propaga in tutta la Piana di Navelli: a Carapelle Calvisio morirono 400 persone, ne rimasero vive solo 151. A L’Aquila, per arginare il contagio, fu subito vietato il commercio con la capitale, vennero sorvegliate le porte, fu istituito un “Tribunale della Peste” e aperto un lazzaretto. Ma tali misure risultarono vane. Agli inizi di agosto la peste arriva a Civita Bagno ed alla fine del mese entra in città.

Come a Napoli, anche a L’Aquila i signorotti fuggirono nelle loro ville di campagna, contagiando anche i borghi del contado. All’Aquila morirono circa 2.000 persone. Le strutture sanitarie e le misure adottate con l’avanzare del morbo risultarono inadeguate. A metà ottobre, quando i morti superavano ormai i 30 al giorno, ci fu un inasprimento delle restrizioni: venne severamente regolato l’ingresso, furono controllati anche gli operai addetti alla vendemmia, i quartieri urbani furono assegnati ad un sanitario che aveva l’onere di visitare e vigilare; fu infine aperto un nuovo lazzaretto. Alla peste si uniscono carestia e freddo e venne avvertita anche qualche scossa di terremoto, sempre di casa a L’Aquila. La peste, dopo oltre quattro mesi, allenta finalmente la morsa. Terminate le operazioni di disinfezione, per verificare se i materassi fossero stati disinfettati a dovere, si utilizzarono come cavie i detenuti condannati a morte, obbligati a dormire sopra i materassi per qualche giorno; fino a qualche settimana prima avevano trainato i carri dei deceduti fuori città, nelle fosse comuni. Da L’Aquila, attraverso l’Altipiano delle Rocche, la peste giunge nella Marsica. Da Ovindoli scende a Celano, falcidiato dall’epidemia e da qui si diffonde nei paesi vicini ed in tutti i centri sulle sponde del lago: Venere di Pescina, Ortucchio, Luco, Trasacco, dove i morti in pochi mesi furono oltre 350. Numerosi i deceduti anche a Luco ed Avezzano, da dove il morbo si propaga a nord, verso Tagliacozzo, e a sud, passando per Capistrello, verso la Valle Roveto. Il piccolo borgo di Pescocanale fu decimato; a Canistro, resta in vita appena 1/5 della popolazione. Come scrive Febonio, il piccolo borgo venne decimato «da ridursi ad appena una quinta parte»,l’unica che «scampò dalle fauci della morte». In una nota del 1854 l’allora sindaco di Canistro scriveva che sarebbero rimaste in vita solo 7 persone – su circa 300 abitanti – costrette a vivere«quasi allo stato naturale».

La peste provoca un tracollo demografico di tutta la provincia aquilana – il tasso di mortalità, come in altre aree del Mezzogiorno, si attesta in alcuni comuni tra il 50 ed il 60% della popolazione – un aumento del prezzo della manodopera e carestie, sempre a braccetto con le epidemie. Solo dopo numerosi anni ci si riprese dal letale morbo che si ripresenta solo in maniera sporadica negli anni successivi, cedendo il passo ad altre pericolose epidemie, in primis il colera e poi, verso la fine del secondo decennio del ‘900, alla terribile “spagnola”, che nel mondo causa circa 50 milioni di morti, in Abruzzo dal 1918 al 1921 provoca oltre 9.000 morti. La peste, come tutte le catastrofi, genera profondi cambiamenti, non solo nella sfera sanitaria ma anche sotto il profilo istituzionale, economico, sociale, urbanistico. In primis, porta ad un rafforzamento delle strutture amministrative dello stato moderno, un po’ quello a cui stiamo assistendo oggi con il Covid 19. Il Coronavirus così come la peste del ‘600 e come tutti gli eventi traumatici, spezza la nostra vita in un “prima” ed in un “dopo”. Un “dopo” auspichiamo più egualitario, più sostenibile e più inclusivo anche se, come ci ricorda qualche filosofo alternativo, dobbiamo sentirci parte attiva di un profondo processo di cambiamento, rammentandoci che: «in molti stanno lavorando perché tutto resti come prima».

26 luglio 2020 Sergio Natalia, (storico per hobby)

Condividi questo articolo