B(otticch)IO METANO e il disaster movie della Marsica orientale

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
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TRATTO DA: Il Martello del Fucino 2019-8 SCARICA PDF

L’insostenibile leggerezza del non-essere della Marsica orientale

Cascare-dal-pero

Sotto la sollecitazione del progetto del nuovo impianto per il biometano localizzato in un cuneo di terreno dove si incontrano i tenimenti di tre diversi municipi, Collarmele, San Benedetto dei Marsi e Pescina, la Marsica est – espressione, anodina e anonima, che invero rimanda al nome di un casello autostradale; e con la quale, non a caso, molto tempo fa si voleva ribattezzare quella squadra di calcio poi nota (soprattutto alle cronache giudiziarie) come ‘Valle del Giovenco’ – parrebbe essersi ridestata dal suo comatoso sopore.  D’improvviso, un ritorno di fiamma di orgoglio identitario sembrerebbe, a leggere i giornali cosiddetti ‘serii’, aver ri-acceso la fiammella di uno spirito civico che noi davamo per disperso, se non proprio estinto: proclami, riunioni, manifesti, insulti, lettere anonime (potevano mancare, queste ultime?) in nome della tutela della salubrità dell’aria dell’ambiente e del Territorio (la maiuscola è d’obbligo) e contro il perfido digestato (ovvero: il residuo del processo di digestione anaerobica); digestato che il progettato impianto dovrebbe, dopo aver utilizzato gli scarti di produzione agricoli per ottenere energia (follemente incentivata con i danari nostri), lasciare in sorte alle nostre lande, per essere sversato, per sovrammercato, chissà, nei campi.

Messa così, la versione ufficiale della opposizione al progetto sarebbe la benvenuta ma – c’è un ma – temiamo si attagli solo in minima parte allo spettacolo al quale stiamo assistendo, impotenti e rassegnati: spettacolo frusto, che ha del ‘già visto’, e non molto divertente, il cui maggior pregio risiede, paradossalmente, nel riflettere, come in una camera oscura, per contrasto, tutti quei fenomeni che negli anni siamo andati di volta in volta modestamente descrivendo, e alcuni paventando, e che ci hanno resi così poco ottimisti sul futuro di questi disgraziati luoghi.

In realtà, noi, che siamo anziani e piuttosto cinici, questo progetto riusciamo a considerarlo solo assumendolo come caso esemplare, costituendo, di per sé, ben poca cosa. 

Proprio la modestia dell’incombente pericolo ha reso palese, una volta di più, il grottesco teatrino politico-amministrativo di un Territorio (la maiuscola è d’obbligo) al quale purtroppo partecipiamo; Territorio suddiviso in circoscrizioni che nel XXI secolo non hanno alcuna ragion d’essere e che somigliano sempre più ad ambiti condominiali (beninteso, di piccole dimensioni: nella zona di provenienza di alcuni dei promotori dell’impianto in questione, ovvero nella parte est di Roma, sono presenti centinaia di palazzi che ospitano, singolarmente, più abitanti di quelli che esprimono i nostri tronfi velleitari e divisissimi gonfaloni). L’interessamento, anche attraverso delle riunioni appositamente convocate, di altri centri viciniori ai tre sopra citati (dico meglio: di alcuni amministratori dei centri prossimi a quelli sopra citati), rende ancor più lacerante la constatazione di quanto la mancata fusione dei municipi della Valle del Giovenco ci abbia danneggiati; e di come tale parcellizzazione produca degli effetti nefandi proprio in questi frangenti, quando occorrerebbe essere dotati di strutture amministrative in grado di costruire elaborato pensiero, e non degli uffici tecnici spopolati, impossibilitati a produrre qualcosa di sensato su MD3, effetto cumulo, chimica degli scarti, frazione organica stabilizzata. Restiamo convinti che molti dei comuni-polvere (l’espressione è di un notissimo giurista e non è quindi da considerarsi offensiva) continuino a sopravvivere, quale simulacro, soltanto per ‘consentire’ di agire sostanzialmente indisturbati, in difetto di un’opinione pubblica strutturata (cioè di una ‘società stretta’ leopardiana: che segua i fatti e ne discuta, e li analizzi, e li studi), per perseguire una serie di progetti e di obiettivi – più o meno ambiziosi; di emanazione forestiera ma più spesso paesano-arrangiata; talvolta, joint-venture con i nostri in posizione subordinata (“pali”) – senza patire controlli e occhiute critiche: il resto lo fanno le cosiddette Autorità, dalla magistratura (il minuscolo è d’obbligo) in giù, veri pilastri della conservazione dello stato comatoso e ingiusto del nostro Territorio (la maiuscola è d’obbligo). Non ce ne vogliano i vari soggetti in questione, chi sostiene le diverse parti in commedia, ci pare che il caso presente rientri ampiamente nella fattispecie appena delineata.

La constatazione più dolorosa è quella che le piccole comunità nelle quali siamo divisi non si conoscono. Non solo i sindaci non si coordinano (se non per delle becere cene che portano alla soddisfazione dell’appetito fisico): ma proprio i cittadini non hanno contezza gli uni degli altri; o meglio, sembrano avere un’idea della vita e della struttura dei paesi le cui piazze si trovano a poche centinaia di metri dalla loro come fosse informata a pratiche di mondi lontanissimi, collocabili tra il Vietnam e la regione del Borneo; un fenomeno che – fatti salvi i reduci dall’Istituto San Berardo, benemerita scuola professionale pescinese che costituì un punto di incontro per tutti i ragazzi del circondario, che ancor oggi in qualche modo si riconoscono – meriterebbe un vaglio di approccio di metodo sociologico, per quanto è bizzarro e straniante.

Le recenti vicende, le conferenze stampa, gli incontri sul biometano, costituiscono, al riguardo, una miniera di controprove, di equivoci, di episodi di volta in volta comici, drammatici, imbarazzanti. Tante grida sull’autonomia dei comuni; di poesie sul ‘piccolo è bello’, e persino dell’orgoglio sul ‘desertificato è meglio’; tante petizioni di principio sull’importanza delle nostre storie infinitesime e banali; e le molteplici narrazioni inventate del passato hanno prodotto anche questo: l’irriconoscibilità tra dei singoli distanti un tiro di schioppo, atomizzati non solo dai processi di comunicazione di massa ma persino dal reticolo di interpoderali che li separa come dei muri. Che sono anche mentali. Per dire, le manifestazioni del fenomeno quale riflesso involontario di questa condizione di isolamento: si fa un manifesto del Comitato tal dei tali, destinato alla Marsica est, e lo si affigge solo in un paese, il proprio. Non stiamo divagando, crediamo questo sia il nocciolo del problema, e le procedure dell’impianto di biometano un blando epifenomeno.

Tra i prodotti, i cascami, il combusto della vicenda biometano vi è certo, in prospettiva (probabile, non costituendo i sondaggi mezzo sufficiente per arrestare talune procedure autorizzative), il digestato, che a seconda di come e da dove lo si guardi può essere rifiuto o concime, ma è più interessante il disvelamento di una serie di ‘strutture’ attraverso le quali la nostra economia agricola vive, funziona, straccia. E non è un ritratto del quale bearsi, per quel che ha fatto intravedere. Le centrali dell’informazione farlocca marsicana si dedicano da anni a demolire dei miti quali quello – operativo – dei Torlonia, facendoci indugiare e perdere tempo con fatti decontestualizzati lontanissimi e con circostanze che, ove non affrontati con metodo interdisciplinare a guida storica, risultano aneddoti ameni buoni per le notti invernali (i cui racconti sono stati peraltro sostituiti dai canali che trasmettono calcio e film); ma poco o nulla hanno prodotto, cotanti giornali, anche quando si era in presenza di indagini e fatti acclarati, a descrivere e costruire un quadro attendibile, veritiero, di quale regime informi oggi l’altopiano del Fucino, l’output complessivo degli ortaggi e dei tuberi destinati ai vicini mercati delle città. Troppo difficile, e anche pericoloso. Meglio attardarsi a raccontare il cafone siloniano che zappa in spalla va a guadagnarsi il proprio tozzo di pane, nel feudo concentrazionario della eccellentissima Casa Torlonia. Fa folclore, commuove, e piglia un po’ per i fondelli.

Silone, in un suo lavoro minore, ‘Il lievito del cuore’, una sorta di soggetto cinematografico che si fa persino fatica ad ascrivere allo scrittore, degli anni Cinquanta del secolo scorso – che sono gli anni che la nostra contrada parrebbe al momento rimpiangere, stando alle espressioni di voto e l’atteggiamento sui diritti civili – aveva a suo modo indicato una via per il Fucino agricolo, quella dell’associazione di produttori, che tanto esito ha dato in altre parti d’Italia. Ma da noi, la genetica incapacità ad unirsi ha fatto sì che questo fenomeno non lo si vedesse se non con manifestazioni asfittiche, e in epoca di molto successiva a quella nella quale avrebbe avuto delle speranze di successo, ed è presto rovinato in una fine ingloriosissima. Appena migliore il risultato ottenuto sull’altro grande corno del dilemma, il tema della trasformazione del prodotto sul posto, azione che avrebbe di molto migliorato la nostra offerta sui mercati e quindi la redditività del lavoro e di impresa, e sulla quale poco hanno potuto persino i politici, soprattutto democristiani, potentissimi, che vi hanno indugiato, procacciando delle risorse non trascurabili per gli impianti di gamma.

Alla fine della fiera, a Fucino si è instaurato un regime sul terreno che Marx avrebbe rubricato «di produzione asiatico», governato da istanze extraregionali di varia natura, sulle quali solo alcuni imprenditori, i maggiori, hanno qualche influenza; ma dette influenze risultano a doppio modulo, esercitate in entrambi i versi, e il lato abruzzese è quello evidentemente più debole. Tale regime si è innestato su una società arretrata, connotata da elementi puramente feudali, che bene si mostrano, per come si sono innervati e giornalmente si osservano, a chi transiti tra le buche della Circonfucense, nei rapporti che caratterizzano le forme di produzione, i contratti, la subalternità della manodopera (in buona parte extracomunitaria). Nessuna associazione di categoria o sindacato può farci nulla; e nessuno pare avere l’ambizione di sostenere una lotta per una nuova cultura contro il diffuso vassallaggio che permea i costumi fradici di una società che, come recentemente scritto da un noto economista, presenta un’infrastruttura paraschiavistica, sulla quale a stento si regge. Non sappiamo peraltro per quanto ancora un simile andazzo possa perpetuarsi (sempre il noto economista ha teorizzato reggersi, il ‘sistema Italia’ (e si figuri il nostro, su montagne abbandonate!), su un’accumulazione di patrimonio che transita dai nonni ai nipoti, e che presto scorterà).

Meno si era compreso, invece, degli scarti di produzione agricoli – quelli asseritamente necessari per il funzionamento dell’impianto –, sino a quando alcuni articoli di Angelo Venti e Claudio Abruzzo non hanno mostrato cosa sia il consorzio di agricoltori Opoa Marsia srl, gli ingranaggi, il telaio produttivo che si indovina e che gira e che tutto o quasi, da noi, macera, sufficientemente lontano da occhi indiscreti. L’effetto straniante di queste illustrazioni (dicesi: dei conferimenti, degli smaltimenti progettati in tal fatta, e persino dei dissidi tra i vari operatori associati che hanno condotto alla sospensione dell’iter approvativo dell’impianto), è stato, almeno in capo a chi analizza le questioni per quel che sono, il medesimo di quando si scoprì che centinaia di piccole realtà marsicane si erano affiliate ad un soggetto agroenergetico (mica cazzi!) per fornire la biomassa al megainceneritore PowerCrop di Avezzano, prestandosi al ruolo di foglia di fico che avrebbe dissimulato l’incenerimento dei rifiuti che oggi ammiriamo in televisione, nelle strade di Roma; nel mentre un’altra parte della società marsicana si opponeva con tutti i mezzi alla realizzazione di cotanto mostro. Scarti asso e pigli primiera!

Tornando dunque al biometano di casa nostra: normale che il rammarico per la sua messa in campo (espressione mai così efficace: vera e figurata), mostrato da parte di alcune categorie agricole, sia limitato dal fatto che simili impianti erano stati pensati, con i cospicui incentivi (il cui ammontare increduli apprendiamo), per associare i lavoratori, i produttori locali, e smaltire un residuo della produzione dei terreni che pure esiste, ed ha un impatto notevole sull’ambiente, e che non si può liquidare rimuovendo il problema, semplicemente non considerandolo. Può considerarsi buono o cattivo un impianto a seconda di chi sia a realizzarlo? Ma c’è la questione sopra prospettata del difetto dello stimolo all’associazione, della ripulsa per ogni gestione collettiva, e dunque non ci si può stupire che arrivi qualcuno da fuori, a fare e ad incassare presso il GSE. E pazienza se gli edifici dove i nuovi impresari risultano legalmente insediati ricordano i teatri di scena di criminal mind, in strade sconosciute anche ai paesani, e contrassegnate da numeri civici improbabili. Normale che di questi impianti sotto il MegaWatt, alle condizioni attuali, drogate, delle energie cosiddette rinnovabili, e allo stato delle cose che da noi vige, qualcuno pensi di realizzarne un reticolo, una morra, con buone opportunità di successo, per la permeabilità del tessuto sociale, per la presenza dei ‘pali’ e dell’assenza di cani da guardia dell’opinione pubblica.

Due lustri or sono, all’epoca della lotta contro la discarica di Valle dei fiori (progetto che oggi tutti definiscono ‘folle’ ma che all’epoca riscosse grande consenso e, più ancora, suscitò vasta omertà) ci permettemmo di preconizzare il destino del Fucino dipingendolo, a tinte fosche, quale «distretto energetico-minerario»: in questi anni il processo – in realtà già in atto da decenni con le cave – ha fatto molti passi in avanti, mentre la difesa dell’ambiente è progressivamente venuta meno, ad onta del proliferare, che invero mai avremmo potuto sospettare, di tanti ambientalisti nei nostri paesi (una teoria è quella che il numero degli ambientalisti, soprattutto di quelli di nuovo conio e leghisti di animo, cresca proporzionalmente allo sfascio; e che il loro ruolo si tramandi solo perpetuando le criticità per le quali si sono attivati, che dunque non posso essere risolte; in ogni caso, anche lo desiderassero, non da loro). Beninteso, è un’opzione, quella di essere un distretto che procaccia e sacrifica le proprie risorse fisiche e naturali in favore di altri: ma che almeno lo si faccia scientemente, con metodo, fissando un corrispettivo più alto della mancia che solitamente accompagna queste operazioni.

Senza voler fare esercizio di benaltrismo, il fatto è che se la difesa del Territorio (il maiuscolo è d’obbligo) nel quale viviamo passa di volta in volta per una singola stazione diversa, e ognuno cura solo la stazione che gli interessa, il benessere complessivo risulterà sempre inferiore alla somma di tante piccole istanze. E, in ogni caso, se ognuno procede di suo, senza coordinarsi con gli altri, difficilmente riuscirà a ottenere qualcosa per la stazione che pure gli preme. Questo per dire che l’ambiente è uno, e che preservarlo costituisce una priorità che non può essere spacchettata; la tutela della salute che a detta difesa dell’ambiente viene immancabilmente associata, non può esercitarsi a giorni alterni. La stessa agricoltura che si pretenderebbe di tutelare insieme all’ambiente e alla salute, costituisce, nella sua versione tecnologica, la maggiore fonte di inquinamento per noi umani che viviamo sulle sponde dell’ex lago. La terribile ipocrisia, ostentata da quasi tutti i soggetti pubblici e privati in campo nell’arena pubblica, riguardo ai molteplici temi sui quali, negli ultimi anni, ci siamo diffusi, riscuotendo un largo disinteresse: la deficitaria e salmonellotica depurazione dei reflui nell’alveo del Fucino – questione tenacemente ignorata-irrisa da tutti, ivi compresi gli imprenditori agricoli, che per primi dovrebbero piuttosto attivarsi –; la disastrosa ed infame condizione dell’ultimo tratto del fiume Giovenco, pure dovuta in massima parte alle pratiche di coltivazione; il posticipo delle misure per la mitigazione del rischio idraulico previste dal Masterplan sotto Pescina, in favore di un impianto irriguo a pressione in grado di far fare più insalate possibili a quei produttori maggiori sopra richiamati, a scapito del prezioso bene che è l’acqua sottostante; tutte queste cose, elencate a solo titolo di esempio, ci fanno considerare con molto scetticismo queste battaglie di bandier(in)a contro un impianto, senza che ci si interroghi se non sarebbe il caso di elaborare delle iniziative per incidere sulle regole, su quanto noi si faccia quando si decide chi andrà a fare le leggi o ad amministrare, che so, la Regione; e se domani, magari, si rischia di ricominciare nuovamente, dinanzi ad una nuova proposta, come è puntualmente avvenuto negli ultimi anni (in qualche caso poi, chi oggi contesta allora plaudiva; e la confusione si infittisce).

La nostra modesta opinione è che la situazione del nostro Territorio (la maiuscola è d’obbligo) sia disperante, e che vi siano delle cause permanenti di ambiente sociale che impediscano una crescita culturale, sui temi collettivi, che sola può determinare un progresso effettivo. Oggi posso impedire che dei cattivoni si insedino con il biometano (ma già è pronto un altro progetto!) e tutelare quel lembo di zolle di Marsica; ma poi ci si gira, e si ammira una vecchia discarica sulle rive di un fiume, che percola da decenni, e che non viene bonificata, e non sarebbe una cosa impossibile. E via così, sino ai servizi che non si uniscono, alle scuole che non si fanno (glissiamo per carità di patria sulle rotonde!).

Per dirla in poche parole, il rimuovere dalle nostre coscienze la prospettiva del declino, non considerarlo, per adeguarsi ad un nebuloso orizzonte di conservazione e reazione che contraddistingue, come la nebbia invernale la nostra visione fisica, il nostro orizzonte morale e collettivo, è un pericolo molto più forte di qualsiasi digestato.

fmb

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