Avezzano – Il vagheggiamento della Città Analoga ne ‘L’ora violetta’

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
14 Minuti di lettura

Sub a)

Giunti – come recita la quarta di copertina – «alla ventitreesima pubblicazione dell’autore sulla sua città» (dove per città è da intendersi Avezzano), e con nelle mani il corposo dossier che ne raccoglie molte (ma non tutte), la prima questione che si pone è quella di dove un simile corpus dovrebbe essere allocato, in una libreria reale o virtuale che volesse conservare le partizioni o i settori di un tempo (e non la logica Amazon): Giuseppe Pantaleo è letteratura, storia, altro?

Per il paratèsto – da intendersi, questo, come «l’insieme di produzioni, verbali e non verbali, sia nell’ambito del volume stesso (quali il nome dell’autore, il titolo, una o più prefazioni, le illustrazioni, i titoli dei capitoli, le note), sia all’esterno del libro (interviste, conversazioni, corrispondenze, diarî, ecc.), che accompagnano il testo vero e proprio e ne guidano il gradimento da parte del pubblico» (Treccani) – come per l’intelligenza logico-linguistica che lo connota, questo libro, L’ora violetta, non è facilmente rubricabile, ascrivibile ad uno scaffale piuttosto che ad un altro, e la risposta sul suo autore, e su tutto quel che ha prodotto serialmente su Avezzano, è lungi dall’essere intuitiva o scontata.

Partirei dal punto di culmine, ovvero dalla sommità della curvatura del testo oggi in esame, pagina 25, dove Pantaleo scrive (si scuserà la lunghezza della citazione, necessaria, e della quale, infra, non si butterà niente):

[…] Vi è qualche storico di vaglia che si sia mai interessato alla storia della città? No, immagino perché si tratta di un agglomerato che si è lentamente affermato a scala comprensoriale con il prosciugamento del lago Fucino neanche 150 anni. In precedenza era un paese sotto gli 8mila abitanti e si è sempre trovato ai margini degli avvenimenti importanti. A chi, può interessare una simile vicenda?

Neanche attrae l’attualità fatta di mediocrità, di conformismo quando non di retromarce; Avezzano è, in fondo, un paesone banale per un giornalista serio o uno storico quanto un film porno per un cinéphile o un catalogo di vendite per corrispondenza – quelli degli anni Settanta – per un fotografo.

In mancanza di qualcuno del mestiere ci hanno pensato i locali: una pletora di «storici locali» da quando è diventata una specie di moda nella periferia italiana. Ha prodotto che cosa finora, tutto ciò? Niente di rilevante o di utile ai giorni nostri: si tratta di una massa di informazioni (precise e no) prese qua e là senza verifiche, che dice pochissimo o nulla sia circa la contemporaneità in cui viviamo, sia per le occasioni poco o niente sfruttate da parte dei predecessori. I materiali ripresi o ricavati dalle testate giornalistiche, sono talvolta poco o per niente affidabili considerando il ruolo tradizionalmente poco anglosassone quando non apertamente ancillare che i giornali hanno ricoperto nella vita di Avezzano […].

Come si vede, ce n’è abbastanza per escludere Pantaleo dal novero degli storici patrii (e, flagello non minore, e a questo strettamente legato, dei romanzieri storici) già oggetto di una tanto articolata quanto perfida critica situazionista in occasione della ricorrenza del centenario del terremoto del 13 gennaio. Con le dovute eccezioni, ovvio.

Nelle parole sopra riportate di Pantaleo rimbomba l’eco di quanto scrisse nelle sue memorie (1977) uno dei figli più illustri di Avezzano, Bruno Corbi, rievocando le impressioni provate al rientro dal carcere fascista (1943):

[…] La città non era cambiata: era rimasta una città di frontiera, come dopo i primi anni del terremoto, dove la gente arraffa, incattivisce, e si rintana. Non era città e non era paese, era un agglomerato di case, arcigno ed incolore. Dove i soldi non mancano e se ne stanno, anch’essi, nascosti […] Tale era rimasto il nativo borgo malvagio […].

Inciso: questo carattere di luogo di frontiera – e, quindi, in continua trasformazione (di qui, forse, la reazione avversa rappresentata dal patetico tentativo odierno di elucubrare e ostendere tradizioni inesistenti che anima molti degli storici e dei romanzieri sopra non lodati; e avversatissimi dal Pantaleo, quasi quanto i fantalinguisti [altra sciagura recente]) – è già venuto in rilievo all’atto delle precedenti uscite del Nostro, ed è perfettamente condensato dal testo di quella breve lettera con la quale Camillo Corradini (intestatario, oggi, dell’arteria che gli avezzanesi ritengono,erroneamente, come predica da anni Pantaleo, la più importante della città) impetrava, nell’anno del Signore 1920, al Ministero dell’Interno, un aumento di stipendio per il segretario comunale Michelangelo Colaneri, che doveva vivere in quel «far west» (testuale) che era la Avezzano del tempo.

Quindi, né letteratura in senso ampio né storia locale in senso (ri)stretto. Deve trattarsi di altro, dunque, se l’esercizio consiste di oltre due decine di pubblicazioni. A meno di non chiamare in causa la psiche e la mono maniacalità (peraltro, l’arte sarebbe patologica per definizione).

Sia detto, a testimonianza dell’eterogenesi dei fini che tutto il nostro agire informa, che la pubblicazione delle uscite pantaleiane non è scevra dalla intenzione – condivisa da tutto il gruppo gravitante su località Petogna e da Aleph editrice – di far «diventar documenti anche certi scritti, gli autori de’ quali erano lontani le mille miglia dall’immaginarsi che mettevano in carta de’ documenti per i posteri […]» (Manzoni, Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione).

Della natura di Pantaleo quale possibile futura fonte storiografica (in senso ampio), l’estensore di queste poche arbitrarie note è convintissimo, sempre ammesso che la memoria – non inventata – abbia un futuro (e qui sarei meno ottimista in generale; e assai pessimista per gli Abruzzi). Ma stiamo andando fuori tema.

Sub b)

L’ora violetta consiste in un diorama – ovvero: «panorama, convenientemente colorato e illuminato, che, osservato con opportune lenti, dia impressioni di realtà; anche, panorama di cui sono esaltati con opportuni artifici gli effetti prospettici» (la definizione più attinente tra quelle fornite dalla Treccaniper il vocabolo)– articolato per sketch, uno per (quasi) ogni lettera dell’alfabeto.

Lungi dal voler chiamare in causa implicazioni ipercostruttivistiche o, di contro, l’inconscio ottico, non si può aggirare lo scoglio del nesso esistente tra decifrazione delle tracce e narrazione, il percorso cioè che nel nostro caso concreto conduce dalla nota rituale camminata di Pantaleo per il Quadrilatero al concepimento e alla stampa di un libro.

Qui ci viene in soccorso un grande storico (Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce):

«[…] l’adozione di un codice stilistico seleziona certi aspetti della realtà e non altri, sottolinea certe connessioni e non altre, stabilisce certe gerarchie e non altre. Che tutto ciò sia legato ai mutevoli rapporti che si sono sviluppati nel corso di due millenni e mezzo tra narrazioni storiografiche e altri tipi di narrazione – dall’epopea, al romanzo, al film – sembra ovvio. Analizzare storicamente questi rapporti – fatti, di volta in volta, di scambi, ibridazioni, contrapposizioni, influssi a senso unico […]»

Impressionante, ove non ricercata, la corrispondenza con altro passaggio di Pantaleo sulla sommità della curvatura del suo presente testo: «la storiografia può fornire un aiuto importante. È più agevole narrare una città, in un particolare periodo, attraverso un prodotto artistico (film, fotografia, libro, quadro). La letteratura, perché onnivora, dà anch’essa una mano – per un breve lasso, si capisce».

Si torna al discorso sub a), e alle ‘ibridazioni’ tra narrazioni storiche e narrazioni di finzione alle quali abbiamo – confusamente – fatto cenno.

Cannibalizzo una frase del grande architetto Aldo Loris Rossi: «[…] forse solo le distruzioni esprimono completamente un fatto. Fotografie delle città durante la guerra, sezioni di appartamenti, giocattoli rotti, Delfi e Olimpia. Questo poter usare di pezzi di meccanismi il cui senso generale è in parte perduto mi ha sempre interessato anche formalmente […]».

Ecco, qui, ne L’ora violetta come in tutto Pantaleo – innanzitutto nella sua ragguardevole produzione grafica e di illustratore; produzione che anche in quest’uscita risulta sorprendente – si nota una destrutturazione degli oggetti e delle vicende del luogo, che vengono riassemblati per epifanie come in uno stereoscopio, e alla fine costruiscono un luogo animato (animato innanzitutto dal suono del mio passo, ancora una volta evocato). Non è perfettamente oggettiva la Avezzano di Pantaleo, certo non è aleatoria o falsa. Un ponte gettato tra realtà e possibilità.

Sub c)

Anche in questo testo, Pantaleo tenta di calibrare una descrizione per sé stesso. Godibile il ragionamento del Nostro sulla figura del flâneur (qui, ahinoi, soccorre solo wikipedia: «termine , reso celebre dal… che indica il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie cittadine, senza fretta, sperimentando e provando emozioni nell’osservare il paesaggio. La parola non possiede un’esatta corrispondenza in italiano, tuttavia la locuzione “andare a zonzo” rende bene l’idea dell’azione. Il concetto di flâneur ha una significativa presenza anche nell’opera del filosofo  ed è ricorrente nell’ambito di discussioni accademiche […]») e quella del fugueur (che invece rifugge dal centro cittadino in quanto tale).

Le considerazioni di Pantaleo mi hanno richiamato alla mente le parole di ‘Bobi’ Bazlen riportate nell’ultima opera di Calasso: «[…] Io sono e rimango un ibrido fra un bourgeois ed un outsider due concetti che sono del tutto inconciliabili e se uno se li porta dentro entrambi non può diventare né l’uno né l’altro […]». Se per bourgeois assumiamo colui che sta nel borgo – sempre Treccani: «in origine, abitante di un borgo, di una città, soprattutto con riferimento alla Francia; quindi, in genere, cittadino (contrapposto ai villani, ai rustici)»– Pantaleo racchiude queste due figure (sul fatto che sia un outsider non penso occorra dilungarsi). Pantaleo non è Bazlen, nessuno può esserlo, ma chi scrive lo ascolta con lo stesso trasporto con cui Calasso seguiva ‘Bobi’ (nessuno potrà essere Calasso, a scanso di equivoci).

In passato abbiamo richiamato il Calvino delle città invisibili ma Pantaleo per me è il collage elaborato nel 1976 per la Biennale di Venezia da Aldo Loris Rossi, Fabio Reinhart, Bruno Reichlin ed Eraldo Consolascio: la ‘Città Analoga’.

Nella recente mostra romana su Aldo Loris Rossi, la didascalia che accompagna il collage (che avrebbe dovuto trasformarsi in uno studio teorico, in un libro, ecc.; e non lo fu) reca la seguente spiegazione:

La ‘Città Analoga’ rappresenta il tentativo di andare oltre l’architettura della città nello studio dell’organismo urbano. Il suo obiettivo è testimoniarne sia le modalità di riproduzione formale che la composizione più profonda di quella che Spengler ha chiamato, in un capitolo del suo Il tramonto dell’Occidente (1918), ‘l’anima delle città’, coacervo di ragioni storiche, economiche, formali e individuali.

Ecco: per me Pantaleo ci narra ogni giorno, a suo modo, il mistero della città quale entità (non solo di Avezzano dunque: d’altronde, come detto,non è uno storico patrio o un antropologo di quartiere). Anche alla contróra (ancora Treccani: «s. f. [voce ital. merid., comp. di contro- e ora]. – 1. merid. Periodo (all’incirca fra le ore tredici e le sedici) che nei pomeriggi estivi è destinato al riposo. 2. roman. L’ora dopo la quale i sorvegliati dalla polizia debbono trovarsi in casa. …»). Magari in uno di quei bar che ha perfettamente tipizzato, alla lettera b del suo libro.

Tratto da: il Martello del Fucino 2021-1 – SCARICA IL PDF

Condividi questo articolo