AMPLERO IERI E OGGI: un’idea e il mutamento della sua percezione

Redazione
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Ho scritto le mie prime osservazioni 34-35 anni fa e perciò osservo la lunghissima ed estenuante vicenda «Amplero» con un misto di distacco e tenerezza. (Ho taciuto sugli undici progetti d’irrigazione presentati dalla nostra Autorità di Bacino dei fiumi Liri-Garigliano e Volturno, agli inizi d’aprile).

amplero.jpgRagionavamo a spanne allora, non è come adesso quando incontri un ventenne molto addentrato nelle cose che tratta, pronto a sciorinare report, grafici, leggi, progetti e documenti (anche in inglese). Si parlava genericamente d’impatto riferito ad alcune opere pubbliche – non esisteva ancora la V.I.A. (Valutazione d’Impatto Ambientale). Le persone allora, soprattutto chi viveva a una certa quota – a differenza dei cittadini dei nostri giorni – si rendevano conto immediatamente che se qualcuno prelevava dell’acqua da un fiume o da una sorgente, ci sarebbero state delle ripercussioni negative. (C’entrava anche la paura di cambiare, a dirla tutta). «Impatto», era una parola magica, in grado di sparigliare le carte di moltissimi accordi e giochi politici.

Capitava di denunciare la mancanza di politiche (industriali, agricole, eccetera) in casi di vertenze ambientali: una visione a medio-lungo periodo da parte degli amministratori, avrebbe evitato molte proposte e progetti inutili – quando non dannosi.

D’altra parte, alla mancanza di politiche in uno o più settori da parte del partito di maggioranza (relativa, assoluta), si accompagnava generalmente l’indifferenza o il silenzio del maggior partito di opposizione e degli altri gruppi politici ancor meno consistenti. Il collateralismo di sindacato e associazioni di categoria alla politica dei partiti, teneva a bada un sano dibattito nella società su alcune scelte degli amministratori. Il colpo finale sull’opinione pubblica spettava – allora come oggi – a ciò che da alcuni anni è definito «collateralismo mediatico»: giornali, radio e televisioni.

Che cosa ha prodotto tale comportamento? L’attualità è figlia della temperie di quegli anni, anche da noi. Mi spiego meglio.

Gli «scontri» di trenta, quarant’anni fa vedevano impegnati su un fronte un gruppo ristretto di ambientalisti mentre sull’altro c’era una sparuta rappresentanza delle istituzioni; ci si confrontava in pubblico, generalmente nella cronaca dei quotidiani locali. Erano contese per lo più riservate a pochi, generalmente ignorate dai comuni cittadini. La politica giocava talvolta – a differenza di oggi – la carta della delegittimazione nei confronti degli ambientalisti anziché controbattere, argomentare, discutere. «Fate il gioco della Dc» quando si prendevano di mira le scelte – a nostro avviso – sbagliate di un’amministrazione retta da una giunta di sinistra, oppure: «Siete alleati con i comunisti» nel caso di critica a un progetto di una giunta monocolore democristiana. È cambiato qualcosa negli ultimi decenni ma ciò dipende ancora dai meccanismi interni della politica. Un leader dei nostri giorni, un (nuovo) partito ignora la condizione e la potenzialità della zona in cui si muove, ma nel gestire il potere che detiene, deve render conto della sua azione a un’associazione di categoria, a un sindacato, a una lobby, a un gruppo di volontari, a un collettore di voti – proporzionalmente al suo peso numerico. Un leader politico perciò, dovrebbe avere l’accortezza di riferire all’associazione di categoria X o a YZ – suo gran procacciatore di voti -, che non può procurargli la luna che a lui è richiesta, anziché promettergliene un pezzetto per volta, come comunemente accade.

Veniamo all’oggi; io cito adesso la vicenda delle probabili trivellazioni sulla costa abruzzese. I pescatori, i coltivatori, i gestori d’impianti di balneazione si trovano in prima fila contro Ombrina Mare 2 e assimilabili. Si registra perciò delle frizioni tra alcuni imprenditori e altri colleghi, tra lavoratori delle piattaforme e persone che operano in altri settori; tra imprenditori, operai da una parte e comuni cittadini riuniti in comitati e associazioni nazionali dall’altra. Viviamo una vicenda simile dalle nostre parti. (Io però mi chiedo nel caso specifico: l’impianto PowerCrop indica una mancanza di politica industriale o di quella agricola)?

 

(Un paio di incisi). Tra i miei ricordi di gioventù e la situazione odierna è passato di tutto. Si parte dalla denuncia della magistratura italiana circa moltissime opere pubbliche definite inutili e dannose, della corruzione negli appalti pubblici (anni Ottanta del secolo scorso). C’è poi stata la fiammata di Tangentopoli (1992) e nel corso dello stesso decennio, la comparazione tra il costo delle opere pubbliche in Italia e quello nel resto dell’Ue: spendiamo quattro o cinque volte di più, rispetto agli altri. È più recente il capitolo delle «incompiute» e delle strutture costruite ma non entrate in funzione e da pochi anni si è saputo che una parte rilevante del territorio nazionale è a rischio idrogeologico.

Nella mia – anche altrui – ingenuità, ho immaginato l’istituzione delle Autorità di Bacino (1989) come una sponda se non per far apprezzare i corsi d’acqua come ambienti unitari, contenere la pratica di decespugliare ed estirpare alberi lungo il corso dei fiumi, porre un freno allo sfruttamento irrazionale del territorio (escavazioni in alveo, captazioni), almeno per risparmiare all’Italia, nuove briglie, dighe e sbarramenti, cementificazione degli argini e degli alvei.

 

Ho pubblicato sul mio blog l’anno passato – riveduto, corretto e adattato al lettore del Web – il miglior pezzo scritto sulla questione, da parte ambientalista ([s.f.], Amplero e dintorni in «Grünt!» 1983). Fu un articolo particolare perché scritto in un momento in cui l’ambientalismo stava cambiando pelle ma non solo. Fu preso in esame per la sua stesura un documento di progetto (Ersa, servizio agrario, Benefici economici derivanti dagli investimenti per l’invaso di Amplero, All. 4) e quasi sicuramente una relazione della Cassa del Mezzogiorno (All. 10/a). Ne propongo alcune parti salienti.

 

«Noi pensiamo che in casi come questo richiedere un surplus d’indagini non vuol dire assolutamente intralciare il decorso delle opere pubbliche […] ma serve a integrare la fase progettuale con la corretta valutazione di una variabile (quella ambientale) non di poco conto». Il progetto dell’Ersa (ex Ente Fucino, poi Arssa) aveva una sua coerenza.

Segue il primo passaggio definibile «trasversale»: «la nascita di un bacino pone altrettanti problemi di natura ecologico-ambientale, poiché con questo intervento si passerà da un certo tipo di ecosistema (una dolina carsica con caratteristiche ben precise) a un altro costituito da un invaso d’acqua con delle connotazioni difficili da prevedere, vista la complessità delle modificazioni che intervengono nel passaggio da un ecosistema a un altro. In parole povere sono prevedibili cambiamenti del clima, della flora, della fauna, dell’assetto idrogeologico e non ultimi quelli concernenti le attività delle popolazioni viventi ai suoi margini. A tal proposito già dalla relazione sulle caratteristiche geologiche e idrogeologiche (relazione di fattibilità dell’Ersa) si può arguire che se è vero che il livello della falda si trova a 150 metri dal fondo della dolina e se è altrettanto vero che corrisponde proprio all’altezza delle cospicue sorgenti (nota della relazione) che sgorgano tra Trasacco e Ortucchio, visto che la valle [sarà] impermeabilizzata per la realizzazione del bacino e quindi non potrà assorbire più acqua nella quantità originaria, è facile prevedere una pesante ripercussione sulla falda in questione, tale da causare una notevole riduzione dell’attività delle sorgenti stesse».

Si denunciava anche «la mancanza totale di un’investigazione sulla situazione economica della Valle del Giovenco» e si alludeva alla valutazione costi-benefici.

Questa parte dimostra per le questioni che pone, meno anni di quelli che ha effettivamente. (Non era ancora stato inventato il termine «sostenibile»). «A questo punto sorge dunque istintiva una domanda: tutta quest’acqua serve davvero? Oppure si può prefigurare per il futuro del Fucino una situazione sostanzialmente nuova che, rivedendo in maniera critica l’attuale assetto produttivo, dia delle prospettive più interessanti per l’agricoltura senza stravolgere ulteriormente in modo forse drammatico un ambiente già di per sé molto compromesso e senza soprattutto dar del tutto fondo a delle preziose risorse che negli anni a venire saranno sempre più rare e preziose?».

È stata sparsa nel pezzo anche dell’ironia in caso di sconfinamento nell’ecologia da parte dei vari tecnici, ma nella relazione per il finanziamento dell’opera è dichiarata la derivazione della stessa da «una gamma d’indagini geofisiche e geotecniche». Da studente che si era rivolto all’Ente Fucino in cerca di dati per gli esami di urbanistica, mi aveva infastidito più che deluso l’insistenza sulle emergenze dichiarate nella Piana: a quali inondazioni o piene ricorrenti ci si riferiva? (Io conoscevo in tal modo l’Ente, mentre in generale la gente definiva lo stesso: «Zitte e mmagna»). Nell’articolo citato, si partiva dall’esperienza del comune automobilista, motociclista o ciclista in transito per la Piana in alcuni periodi dell’anno: uno strato di terriccio derivante dai campi; quintali di terra fertile sprecata ogni anno. Era ripetibile all’infinito una situazione del genere? Nel progetto dell’Ersa troviamo invece: «l’abbassamento del franco di coltivazione su tutte le superfici coltivate in conseguenza delle asportazioni di notevoli quantitativi di terra operate in occasione della raccolta meccanica delle patate e delle bietole» (Gabriele De Marinis). (Da tenere a mente: «franco di coltivazione»). Ne tratto per dimostrare la consistenza delle argomentazioni di chi si trovava su fronti contrapposti. Io trovavo datata l’idea di quel progetto, mi ricordava alcuni interventi in Italia tra gli inizi del Novecento e gli anni Cinquanta. (È un po’ come dire che l’idea che sta dietro a Expo 2015 è nuova di zecca mentre invece, risale all’Ottocento).

Cito un altro brano di De Marinis abbastanza attuale nonostante la data della sua stesura; esso ci dà la cifra della sensibilità, della conoscenza minuziosa e dell’affezione riversata verso l’oggetto del proprio lavoro: «il verificarsi di onde improvvise e di breve durata, determinate dalle acque zenitali che affluiscono nel Fucino dalle vaste superfici rese impermeabili a seguito della realizzazione delle opere civili, industriali e viarie interessanti i vari centri abitati del bacino imbrifero». (Il manifesto Stop al consumo di territorio, risale al 2009).

 

M’interessava relativamente l’impatto ambientale dell’invaso ad Amplero o altrove, quello delle varie vasche di raccolta e di qualche chilometro di tubature da costruire a una certa quota: io pensavo soprattutto all’opera di presa. (Dove, come s’intende prelevare l’acqua?).

(Un’altra parentesi). Non è un caso se si protestava a Pescina e lungo il corso del fiume ben lontani dall’intervento supposto principale, che ha attribuito il nome alla lunga vicenda. È comprensibile anche il disappunto ad Avezzano – quattro gatti, in realtà – e il silenzio dei trasaccani, dei collelonghesi. Chi ha raccolto la voce della Valle del Giovenco? Chi ha provato a dare una forma, a incanalare quella protesta? Soprattutto, perché protestavano? Un altro tipo di domanda, che cosa era successo o, stava in realtà per accadere? È mancato in realtà una parola, una rappresentazione, un discorso per definire quella situazione. Spettava alla politica e a quelli che erano considerati gli intellettuali locali, impostare un’analisi e suggerire un percorso. I politicanti del tempo si erano generalmente rinchiusi nel mutismo perché un’opera del genere stava bene a tutti, preferisco sorvolare sugli intellettuali fucensi (cosiddetti, sedicenti). Erano davvero una novità manifestazioni del genere? (Cfr.: M. Armiero, Le montagne della patria, 2013, I, 3).

Riprendiamo. Mi preoccupavo dei riflessi di un’opera pubblica sul Giovenco e la valle che esso ha scavato nei millenni. Il vecchio progetto prevedeva sul suo corso una «traversa» alta otto metri da cui attingere l’acqua, «a quota 928 m s.m.».

(Per intendersi). Capita di leggere nei mass media circa la «manutenzione» di un corso d’acqua; domanda: perché la fanno? Si recuperano da un fiume, frigoriferi, tapparelle, lavatrici, contenitori vari, lavandini e anche materiali biodegradabili come rami e alberi perché rallentano o impediscono il normale flusso di elementi litoidi (sassi, ciottoli, sabbie): oggetti certo meno ingombranti di un qualsiasi tipo di sbarramento artificiale – che non può essere rimosso, tra l’altro. Ho scritto: «Manomettere il letto di un fiume con briglie, alvei o sponde di cemento, provoca a ripetizione frane e smottamenti “a monte” e allagamenti “a valle”» (Il Martello del Fucino, 5, 2014). Manomettere, vuol dire provocare uno squilibrio in un sistema per sé equilibrato – come un corso d’acqua. Il fiume in tal caso cerca un nuovo equilibrio proprio attraverso le frane degli argini e le esondazioni. È arduo calcolare – nel nostro caso – l’impatto nel corso del fiume superiore all’opera mentre è più semplice immaginare, ciò che può succedere nella parte inferiore – nel medio e lungo periodo. C’entra poco anche la classificazione della zona d’intervento (parco naturale nazionale o regionale, zona sismica, riserva naturale, sito d’interesse comunitario, fascia di protezione esterna, sito archeologico, eccetera): è saggio evitare opere del genere lungo il corso di un fiume.

 

Non possedendo materiali di prima mano, ho qualche remora a scrivere sulle undici «idee progettuali» dell’Autorità di Bacino Liri-Garigliano-Volturno (M. Sbardella, Irrigazione del Fucino, 11 progetti in lista d’attesa”, in «TerreMarsicane» 7 aprile 2015).

Aggiungo qualche riflessione ma provo prima a spiegare perché è facile iscriverli nella vicenda «Amplero». È centrale nella mia lettura la captazione delle acque del Giovenco – non dell’invaso finale -, basta perciò scorrere l’elenco dei progetti per registrare la ricorrenza di tale corso d’acqua.

È stato facile a suo tempo, ironizzare nel Web sull’alto numero delle proposte. Nella vita quotidiana capita anche a me di dover far scegliere a qualcuno tra le mie elaborazioni: come mi comporto? È prassi consolidata nel mondo del lavoro presentare tre proposte di cui una è quella che vogliamo effettivamente portare avanti – migliorandola, adattandola casomai -, un’altra non è certo all’altezza della precedente mentre la terza supera appena il livello della decenza. Gli stessi tecnici fanno capire che la prima idea avrebbe dei problemi a passare perché produrrebbe – tra l’altro – un impatto «notevole sul fronte paesaggistico (una diga alta 35 m in area parco)». I progetti 9 e 10, invece produrrebbero delle «perdite» economiche rispettivamente di 44 e 34 milioni di euro. Un altro paio di proposte ricorda da vicino – si fa tanto per dire – la vecchia idea dell’Ersa. Tale numero dipenderà forse dalla cosiddetta progettazione partecipata che ha coinvolto molti – non tutti – stakeholder (portatori d’interesse). C’è da chiedersi come cotanto metodo democratico, abbia potuto produrre anche le cinque idee appena citate.

Com’è cambiato «Amplero» rispetto agli anni Ottanta? È divenuto una questione meno tecnica e più politica – nel senso deteriore del termine -, nonostante il coinvolgimento di un’Autorità di Bacino, secondo me.

L’ampia recente consultazione con gli stakeholder, è una trovata da geologi, agricoltori, ingegneri idraulici o da politici? (Tu puoi mettere fuori gioco l’ipotesi di un progettista con una nuova teoria o una tecnologia in via di sperimentazione, come fai a battere la decisione di un amministratore locale?).

Il rapporto tra chi forgiava l’opinione pubblica e il mondo politico, è rimasto all’incirca uguale e ai nostri giorni ci pensano più che altro i social network a veicolare le idee dei leader. Nessuno avrebbe però scritto trent’anni e passa fa che nel mazzo delle proposte, c’è quella giusta: «per traghettare il comparto agricolo fucense nel terzo millennio», nemmeno definire un’idea progettuale come «opera rivoluzionaria che risolverà i problemi di irrigazione del Fucino» (Irrigazione nel Fucino, domani il primo incontro per l’innovativo progetto da realizzare, in «MarsicaLive» 19 novembre 2013). Non è difficile immaginare come imposteranno la questione, i mass media – in tempi di populismo galoppante -, una volta scelta dalla Regione l’ipotesi progettuale ritenuta migliore. Si seguirà con buona probabilità, l’usato copione PowerCrop: noi abbiamo ottenuto il malloppo e non dobbiamo farcelo scappare; nel nostro caso: «99.5 milioni in stand-by dal lontano 2001». (Da impiegare «prima che quel tesoretto prenda altre strade»).

Permane pertanto un perverso intreccio di rapporti tra partiti, imprese, associazioni di categoria e sindacati anche se meno evidente rispetto al passato.

C’è stata più partecipazione «popolare» nell’indirizzare le proposte progettuali, ma essa è servita anche a rendere omogenei e compattare interessi disparati, forse contrapposti e a limitare eventuali contestazioni al progetto.

Il progetto dell’Ersa (1980-81) fu criticato da chi chiedeva una maggior conoscenza della situazione locale, da chi reclamava più scienza in fase di progettazione; esso sembrava sorpassato nella sua concezione in quel momento. (Poggiava su solide basi in realtà – «franco di coltivazione», tra l’altro. Si aveva l’impressione che sconfiggere un progetto potenzialmente dannoso equivaleva ad avere un’idea più avanzata, migliore in ogni modo; si pensava – non so quanto ingenuamente – che il mondo funzionasse in quella maniera).

Non ho un’idea dei singoli undici progetti né se esistono i loro esecutivi, ma spero vivamente che rappresentare i nostri corsi d’acqua non sia rimasta una questione meramente idraulica; i fiumi funzionano in modo più complesso di un liquido che si muove in un tubo.

È importante che in quest’occasione non sia alzata una sola briglia su un fiume, nemmeno alta un metro perché se non lo studio almeno l’esperienza degli ultimi decenni insegna a noi italiani che dopo uno sbarramento su un corso d’acqua giungono irrimediabilmente – dopo qualche tempo – le frane e le erosioni.

(Ultime notizie. Gli acquedotti abruzzesi registrano una perdita media del 53%, stando a un dossier dell’Osservatorio di Cittadinanza Attiva – marzo 2015).

In fine. Perché aspettare (almeno) trentacinque anni, se un intervento del genere era tanto importante e urgente per l’agricoltura, l’industria e le popolazioni fucensi?

Giuseppe Pantaleo

tratto da:

ilmartellodelfucino 2015-4  SCARICA IL PDF

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