A Febbraio i quarant’anni dai moti per il capoluogo del 1971

Redazione
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Quarant’anni fa la rivolta per il capoluogo. È il caso di iniziare a parlarne visto che da lì è nata L’Aquila come l’abbiamo conosciuta fino al 6 aprile. E sarebbe il caso che oggi, nel momento cruciale in cui la città rischia la scomparsa, non si ripetano gli errori fatti all’epoca.
Diciamo subito che quella rivolta si inquadrava in un Paese ben diverso: le Regioni ancora da venire, una industrializzazione del sud e dell’Abruzzo ancora sulla carta, da decenni terra di emigrazioni che non aveva trovato ancora la sua strada. Ma anche terra chiusa in se stessa, l’autostrada faceva ancora parte del futuro, e raccolta nei municipalismi meridionali.
La città si ribellò. Furono attaccate le sedi dei partiti e le case degli esponenti politici, Fabiani e Mariani, ritenuti colpevoli del “tradimento”. Si tenne in scacco la “celere” per tre giorni. Si ripeteva in piccolo quello che già era successo a Reggio Calabria. La rivolta fu lo spartiacque della storia della città, ci fu un prima e un dopo durato fino al 6 aprile.
Ma cosa successe dopo? La mancata integrazione regionale, ancora oggi ben presente, senza un asse determinato di sviluppo; l’isolamento della città e del suo territorio; l’industrializzazione di stato che oggi, a stagione finita, ci ha lasciato un territorio desertificato, su centomila abitanti settantamila vivono (o almeno vivevano) in città.
Oggi che la città si domanda sul proprio futuro, ricostruzione e rilancio, la mancanza della Regione si sente tutta.
L’Aquila è sola. In quarant’anni nessuno ha pensato a collegare in modo strutturale questo territorio con Pescara e la costa su rotaia, sarebbe appena un’ora di viaggio, fornendo un servizio di tipo metropolitano che si è colpevolmente lasciato alle connessioni stradali e autostradali. Nessuno ha voluto puntare ad un sistema regionale della formazione che definisse tempi e modi delle istituzioni delle università regionali lasciando ai municipalismi di nuovo l’affermazione di interessi che hanno determinato doppioni e sprechi in una regione di appena un milione di abitanti.
Perché non parliamo del modello di sviluppo che la rivolta ci ha consegnato? Perché non approfittiamo di questo anniversario per parlare della Regione, sempre più occasione perduta, e non opportunità per tutte le aree abruzzesi?
Ricordo, era novembre, il mio preside e presidente del cosiddetto “comitato cittadino di agitazione” mi tirò per la giacchetta e mi consegnò ad altri signori che mi buttarono giù dal palco del cinema Rex, affollato di aquilani. Lo ricordate?  Ero intervenuto a nome dei comitati di base degli studenti contro la lotta per il capoluogo e a favore di manifestazioni per il lavoro e l’occupazione.
Ebbene quale fu in effetti il risultato di quella rivolta se non i 4 mila e passa posti di lavoro nell’industria e i circa 2 mila nei servizi? Non fu certo l’accomodamento statutario ancora oggi messo in discussione da una politica che vede la città contare sempre di meno. Se ne dovrebbe riparlare oggi che le nuvole nel cielo aquilano sono gravide e nere. Chiamare gli abruzzesi a rinnovare il patto regionale, ridare funzione alle nostre città e ai nostri territori. Chissà se sarà possibile.

(Mario Camilli)

Tratto da: SITe.it edizione stampata – numero zero dicembre 2010

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