3 – PSICOLOGIA DELL’EMERGENZA E RISPOSTE CULTURALI A MIRANDOLA

Redazione
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di Rita Ciccaglione

La psicologia dell’emergenza viene oggi a partecipare a quel ben più ampio programma è la “cultura dell’emergenza”, la quale – si sa bene dall’esperienza aquilana – gestisce una situazione post catastrofe secondo determinati protocolli. Sebbene a Mirandola, e in Emilia, la Protezione Civile non abbia calato dall’alto il suo modello gestionale né esautorato i sindaci – a cui invece è stata affidata la gestione dell’emergenza – anche qui non sono mancati elementi, ormai incorporati, riconducibili a uno schema culturale più vasto. Esso, infatti, dipende da ampio complesso di saperi di che rispondono a rappresentazioni sostenute da ben diffuse retoriche umanitarie.
La naturalizzazione del dolore e delle conseguenze psichiche che un evento doloroso può produrre costituiscono un atto di omogeneizzazione del contesto e di oscuramento della Storia. Si istituisce in questo modo una connessione lineare tra sintomi ed eventi in cui vengono cancellate le differenze culturali come pure quelle d’impatto dell’evento traumatico. Il linguaggio neutrale delle scienza finisce per nascondere ruoli e responsabilità e contribuisce a concentrare l’attenzione sull’effetto dimenticando le cause. Nel momento in cui l’emergenza viene istituita, bisogni e situazioni differenti vengono ricondotti a un unico comune denominatore, il trauma, gestibili attraverso determinate categorie analitiche.
Cosa accade quando questo tipo di discorso scientifico è applicato allo scenario di una catastrofe naturale dove era già preesistente una condizione di forte stratificazione sociale oltre che di convivenza interculturale più o meno conflittuale?
Mirandola non è una città coesa, ma una località composta da una serie di comunità che però non producono collante collettivo. È possibile osservare una conflittualità interna tra gruppi dove l’unico elemento di tolleranza è riscontrabile nel principio del “lavoro” in un sistema culturale in cui il valore portante è l’operosità. Se si ha voglia di lavorare si è accettati indipendentemente dal luogo di provenienza. Tuttavia, la percezione comune e diffusa degli extra-comunitari (il 16% della popolazione) è quella che li descrive come detrattori dei servizi di pubblica assistenza, oltre che dello spazio del centro cittadino laddove negli ultimi anni la piazza pare sia diventata il loro luogo d’incontro e non più quello dei Mirandolesi. Si tratta di per sé di una rappresentazione oppositiva dell’alterità.
In questo contesto è possibile osservare la produzione di risposte culturali differenti rispetto al sisma che hanno generato una diversità di comportamenti. La popolazione locale registra di per sé una bassissima percezione del rischio dovuta a una mancanza di memoria storica, essendo gli ultimi terremoti lontani cinque secoli. A ciò si aggiungono i detti popolari che prevedevano scarsi danni in seguito a un sisma poichè su un suolo composto da sabbie miste. Nessuno in Emilia si aspettava un terremoto e la mappa di pericolosità sismica è di fatto costruita sulla ripetitività dei terremoti nella storia conosciuta della nostra penisola. La paura costante fa sì che quasi l’intera popolazione mirandolese, pur non avendo avuto danni gravi, abbia scelto di piantare una tenda sotto casa, in giardino o nei parchetti vicini, dando luogo a un coloratissimo patchwork di Quechua. Coloro che hanno deciso di rimanere in casa o che sono rientrati dopo poco sono condizionati nella loro scelta da due fattori fondamentali. Da un lato, la sicurezza economica di cui si gode all’interno del nucleo familiare costituisce un elemento garante contro la precarietà esistenziale data dal sisma. Dall’altro lato, i danni realmente subiti sono un fattore da considerare anche se non si parla di perdita dell’abitato. Chi si è visto cadere il mobilio non dorme in casa per timore che, a una nuova scossa durante la notte, l’armadio gli venga giù sul letto; chi ha perso un paio di vasi o di oggetti d’ornamento pulisce i cocci e gradualmente rientra.
Nelle tendopoli vengono a concentrarsi, invece, in altissima percentuale gli immigrati. Ciò dipende innanzitutto dall’effettiva perdita dell’abitazione e quindi dal danno subito, ma anche da questioni puramente organizzative. Da un lato l’assegnazione dei posti nei campi attrezzati passa attraverso l’assistenza sociale locale che chiaramente utilizza i medesimi criteri di priorità su un’utenza già inglobata nel sistema. Dall’altro, poiché la domanda di sistemazione nelle tende è diluita nel tempo – in una sorta di smistamento nell’attesa che le tendopoli vengano montate – prima che avvenga la consegna chi può ricorre alla propria rete familiare o amicale per un’autonoma sistemazione. Gli immigrati, non godendo di una rete di relazioni forte, sono in questo caso impossibilitati di fronte alla scelta. Inoltre, al sistema di assistenza è possibile sommare risposte culturali localizzate. La componente africana, ad esempio, gestisce l’evento catastrofico in base all’impatto che esso provoca sulla rete di relazioni che l’individuo ha ricostruito in ambito locale e che travalica l’etnia di appartenenza o il paese di provenienza, ma fa riferimento a un più ampio spazio geografico identitario e ricerca la soluzione della tendopoli concependola come cura collettiva.
Tuttavia, questo tipo di ripartizione prodottasi nei comportamenti di fruizione degli aiuti e che si traduce in una localizzazione evidente dei gruppi finisce per rafforzare una rappresentazione già in atto, quella che più sopra si è tentato di delineare. In tale contesto la psicologia dell’emergenza, se ricerca la causa culturale lo fa in nome del trauma. Spesso si ricorre, secondo osservazione, alla psicopatologizzazione di forme di teatralità espressive della situazione di disagio o a riconoscere il conflitto proprio della convivenza forzata nelle tendopoli come derivante da motivazioni etniche, di conseguenza ad alimentare stereotipi contrappositivi preesistenti. Inoltre, la generalizzazione rispetto ai danni subiti produce un livellamento dell’esperienza traumatica indipendente dalla capacità economica di risposta, invece particolarmente rilevante per il tipo di comportamenti innescatisi nello specifico contesto. Inoltre, non si tiene conto della stratificazione e della vulnerabilità sociale che condanna l’alterità culturale a costituirsi come fascia debole.
La diffusione della rappresentazione del trauma non solo nasconde questi effetti, ma ne costruisce altri. Lo status di “vittima” – in questo caso di “terremotato”- viene istituzionalizzato e si produce un certo tipo di Soggetto. Nella maggior parte dei casi, l’uomo sfugge abitualmente dalla condizione di vittima e l’emergenza cerca di ridurcelo. Non poche persone a sentir parlare di “terremotati” in televisione hanno fatto fatica a riconoscersi come tali, molte di loro hanno cominciato a sentirsi tali quando hanno visto il cospicuo numero di mezzi di soccorso arrivati, le tendopoli montate, l’esercito.
Fa quasi sorridere – ma non è poi così assurdo – che di fronte alla strategia retorica del trauma psicologico che riconduce la diagnosi agli effetti, la vox populi, compresa quella degli immigrati, elabora una tattica capace di ricomprendere l’uomo nella Storia. Ricercando le cause degli effetti di devastazione non è la catastrofe naturale in sé ad emergere, ma l’azione dell’uomo sulla natura. In questo caso la questione dei presunti trivellamenti per la costituzione di depositi sotterranei di gas a Rivara è il leitmotiv che corre di bocca in bocca – e che esplode in una riunione informativa organizzata dall’INGV in una delle tendopoli di Mirandola – nella ricerca di un’attribuzione di colpa che non può riconoscere una natura maligna, una natura che da troppo tempo ha lasciato vivere in pace questa gente. Nella convinzione culturalmente data del proprio dominio sulla natura e di uno stato di benessere percepito come diffuso, di fronte a un evento non prevedibile e non controllabile, l’uomo non riesce a credere all’incapacità dei propri mezzi e si autoriconosce come colpevole sulla scia di una rappresentazione e di un movimento (“No Gas”) che aveva già una forte risonanza sul territorio.
A conclusione, se la psicologia dell’emergenza pretende la risoluzione individuale del trauma prescindendo dal tempo e dallo spazio e senza la possibilità di sciogliere la difficile interazione collettiva in un territorio particolarmente sfaccettato dal punto di vista sociale e culturale, il ricorso al pensiero mitico permette di riconnettersi collettivamente a queste due dimensioni e di risolvere quanto meno l’impossibilità di riconoscersi vittima di fronte al mondo.

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