Reportage. I primi due giorni dopo il terremoto: il dolore e la rabbia

Redazione
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Reportage – I primi due giorni dopo il terremoto apr.10, 2009Il dolore e la rabbia. Piccoli borghi distrutti, abitanti in fuga, la città immersa nel silenzio. Il pianto di chi scopre la morte dell’amico, lo sguardo perso di fronte a Onna

di Pietro Orsatti su left-Avvenimenti

In collaborazione con Angelo Venti www.site.it

foto di Angelo Venti

5-300x199.jpgPrecipitare sul posto a poche ore da un sisma come quello che ha colpito l’aquilano è come gettarsi da un aereo senza paracadute. In qualsiasi modo non si è preparati a quello che ci si troverà davanti. Si vola su una vecchia macchina a metano di un collega di Avezzano per la vecchia statale che dalla piana del Fucino porta all’epicentro del sisma passando per l’altipiano delle Rocche. A Rovere i primi segni visibili del sisma annunciano quello che sarà solo l’inizio: la rocca medievale e un campanile crollati. E poi una discesa verso il capoluogo, per una strada disseminata da frane. «Ma là non c’era un castello?». Sì, c’era, proprio alle spalle di Fossa. Non c’è più, solo detriti franati lungo il pendio. C’è timore a scendere ma si va avanti. La strada è totalmente deserta, irreale. Sono passate poche ore dal sisma e la terra trema, di continuo. Poi la prima chiesa franata e una casa che sembra essere stata bombardata. Civita di Bagno, paesino dell’hinterland aquilano, periferia della città a dieci minuti di macchina dal centro. Ci fermiamo per scattare alcune foto. Dopo pochi minuti ecco un furgone. È il gestore della bocciofila del paese, un omone con due mani che raccontano 50 anni di lavoro. Sta cercando acqua per gli anziani sfollati da una piccola casa di cura lesionata. «Ho venti vecchiarelli, erano sperduti, di notte. Che dovevo fa’? Ho acceso un fuoco e siamo ancora lì». Sono quasi le 4 del pomeriggio e la domanda viene spontanea. Ma i soccorsi? «Per ora non si è visto nessuno».
3.jpgPoco più avanti, neanche duecento metri, una fila di case sventrate e dall’altra parte gli abitanti. Hanno passato la notte in auto, alcuni all’aperto. Non hanno nulla. Né cibo, né acqua. «Le macchine passano qui davanti di corsa e non si fermano», raccontano. Sono calmi, ma sotto ribolle la rabbia. «Abbiamo fermato dei vigili del fuoco che hanno scavato sotto una casa crollata in centro al paese. Verso mezzogiorno hanno tirato fuori due morti, ma sono ancora lì, accanto alle macerie. Non ci sono carri delle pompe funebri abbastanza. E con questo caldo…». Acqua, benzina per tenere acceso il riscaldamento delle macchine di notte, cibo. Hanno bisogno di tutto. Quasi cinquanta persone, con bambini e anziani, abbandonati sul ciglio della strada. Arriva una macchina privata, carica di pacchi di bottiglie di minerale. Non sono dei soccorsi ufficiali, ma volontari del Cai che vanno in giro a distribuire a chi incontrano. Hanno caricato la macchina e via, verso i centri più piccoli. Una cassa d’acqua, una battuta, una stretta di mano e poi via a cercare altri gruppetti di persone assetate.

«Sono tre mesi che si susseguono scosse – raccontano – ma nessuno ha lanciato allarmi, ha detto “prepariamo un piano di emergenza”. Anzi, minimizzavano, dicevano che era tutto sotto controllo, che non c’era da allarmarsi. Ce lo aspettavamo? Beh, non aspettarselo dopo tre mesi di terremoti sarebbe stato da incoscienti». È forse per questo che fin dai primi momenti dopo il terremoto non ci sono state scene di panico. Paura sì, dolore anche, e tanto, ma panico no. Se lo aspettavano, se lo sentivano nelle ossa dopo le prime scosse a fine dicembre.
L’Aquila è a due passi. Civita non è un paesino sperduto in mezzo alle montagne, ed è davvero difficile cercare di capire perché qui non sia arrivato nessuno per dodici ore. Ma fra L’Aquila e qui c’è Onna. E solo al pronunciare quel nome i volti si incupiscono, lo sguardo si abbassa, come si abbassa il tono di voce. Onna è il centro più colpito dal terremoto.

«Onna non c’è più – dice un uomo, ex militare in pensione – è spianata». È lui con la moglie e sua figlia che ci accompagna nell’inferno. A Onna i soccorsi ci sono, sono arrivati, anche se non si capisce perché solo alle 9 e 30 di mattina quando L’Aquila è a tre chilometri. E il paese è raso al suolo. Polvere, macerie, file di mezzi, ruspe in azione. I primi soccorritori che incontriamo sono dei vigili del fuoco, coperti di calcinacci, occhi come fessure in volti impietriti. Occhi. Sguardi di gente che consapevolmente sta lì ma lo sai, lo leggi in quelle pupille arrossate, vorrebbe stare a mille miglia da qua. Perché Onna è l’inferno, offerto allo spietato sguardo dei media di mezzo mondo che si sono dati appuntamento qua. Avanziamo fra le macerie imbarazzati, cercando di non confonderci con il grande circo della catastrofe in diretta televisiva. A destra delle case c’è un prato e una fila di bare protette da alcuni allievi della Guardia di finanza. Proteggono salme, almeno una ventina, e familiari da noi, dagli sciacalli del grande circo dell’informazione.
Rimaniamo ancora un po’. Ci si avvicina un uomo, ci racconta che la madre è morta perché dopo la prima scossa intorno a mezzanotte si è rifiutata comunque di andare a dormire a casa del figlio. Voleva rimanere a casa sua. Poi ci guarda imbarazzato e ci chiede se possiamo prestargli il cellulare per fare una telefonata. Accanto, una ragazza piange. È la figlia del nostro accompagnatore. Ha appena scoperto che un suo caro amico, con cui doveva festeggiare il giorno dopo il compleanno, è morto, disteso sul prato sotto questo sole di primavera che velocemente scompare per lasciare spazio alla pioggia.

7.jpgEd è sotto una pioggia battente che entriamo nella città fantasma: L’Aquila. Avanziamo per il corso, deserto, al centro della strada. Il pericolo dei crolli è continuo. Silenzio e case sventrate, cornicioni e solai crollati. Calcinacci ovunque. Il centro del capoluogo abruzzese è stato totalmente evacuato. Il silenzio è rotto solo dal passaggio di qualche mezzo dei soccorritori e dagli antifurti dei negozi. Hanno iniziato a suonare alle tre e trenta e suonano ancora come sono rimaste accese le luci delle vetrine del salotto buono della città. Più si va avanti e più la situazione appare drammatica. I vicoli laterali sono cumuli di macerie, nella piazza del duomo montano delle tende, ci sono le prime ronde delle forze dell’ordine contro gli sciacalli che già hanno colpito le case abbandonate. Poi arriviamo davanti alla prefettura, rasa al suolo come l’Archivio di Stato, con il suo immenso patrimonio di storia e documenti andati completamente distrutti. E poi avanti, ancora, incontrando sguardi e dolore, stupore e poche parole che raccontano una giornata tremenda: vigili del fuoco, carabinieri, guardie forestali, poliziotti, militari, volontari, tecnici. Un popolo di persone che sta arrivando da tutto il Paese. Addirittura dei “pizzardoni” da Roma, i vigili urbani della capitale, sono arrivati per districare il traffico di convogli, camion, ruspe. «Qui mica sanno come si fa a spicciare un caos del genere, mica l’hanno mai visto il traffico di Roma».
Alla fine del corso, sulla destra, San Francesco e le macerie di due palazzi da cui stanno estraendo corpi da ore. Con le ruspe e poi a mani nude. E la polvere che ti entra dentro, quello che rimane di case crollate, anzi no, esplose. E ancora sempre, di continuo, la terra che trema. A volte piano. All’1 e 15 forte. Per farti capire che anche il giorno dopo la natura farà sentire tutto il suo potere su quel niente che sono gli uomini.
Quando rientriamo a L’Aquila il giorno dopo ci torniamo con una bella scossa sopra il quarto grado. Che provoca crolli e anche decessi. Brutto scherzo per il presidente del Consiglio in arrivo per la sua seconda visita in 18 ore in pompa magna. Mentre il circo mediatico che il giorno prima abbiamo incontrato a Onna si riunisce negli edifici della scuola per ufficiali e sottoufficiali della Guardia di finanza, ad attendere per alcune ore l’arrivo di Berlusconi insieme a quasi 500 uomini dei soccorsi distolti per andare ad accogliere in parata il dispensatore di miracoli, in tutta la provincia si scava. E si scappa. Decidiamo di andare a vedere cosa avviene in giro mentre si svolge il rituale alle divinità catodiche. E scopriamo che, con propri mezzi e senza alcun sostegno, tantissime persone hanno impacchettato poche cose e stanno andando via. Perché non ci sono abbastanza tende, perché la terra continua a tremare, perché si vuole mettere più chilometri possibile fra la vita e questo posto desolato e spaventoso.

1.jpgMa la gente scappa anche a causa dell’imbecille di turno che ha deciso di prendersi gioco della paura di questo intero popolo ferito. Alle 10 e 30 è partita una catena di falsi sms firmati Protezione civile che annunciava una scossa più forte della notte fra domenica e lunedì con epicentro in un paese, Pizzoli, non colpito dal sisma. A segnalarlo è una ragazza di quella località, che appena ricevuto il messaggio ha fatto la valigia. A Pizzoli, intanto, non accade nulla. Ci arriviamo senza difficoltà. Una località turistica, ben curata, a valle del massiccio del Gran Sasso. E deserta. Le poche persone che incontriamo stanno imbarcando i bagagli in macchina. Poi analoghe catene arrivano a Teramo (causando quasi l’evacuazione dell’ospedale), ad Avezzano, dove inizia l’assalto ai supermercati. Addirittura a Rieti.

Dopo aver ricevuto più di una segnalazione di ulteriori disguidi burocratici e di coordinamento, direttamente da soccorritori di vari gruppi e organizzazioni, decidiamo di andare verso Fossa, risalendo la strada che abbiamo seguito il giorno prima. Ci fermiamo ancora a Civita di Bagno e vediamo che il gruppetto di persone si sta montando da sé delle vecchie tende, fondi di qualche magazzino della Protezione civile. Tende che si sono fatte sicuramente l’Albania, e il terremoto dell’Umbria, e forse sono state utilizzate anche prima. Strano, ma abbiamo visto a trecento metri da qui modernissime tende gonfiabili con aria condizionata ed elettricità (e non è una battuta) montate nel parcheggio di un supermercato abbandonato. Quando abbiamo chiesto agli operatori della Protezione civile quanti sfollati si contava di ospitare in queste modernissime strutture abbiamo ricevuto una risposta che ci ha lasciato a bocca aperta: «Non sono per gli sfollati, queste sono per noi».
A Fossa duecento persone hanno trascorso la seconda notte in auto.

6.jpgArriviamo contemporaneamente a due ragazze di Rieti che hanno riempito la loro macchina di coperte e sono venute a portarle qui. A Fossa, più tardi, per un po’ circola la voce di un altro morto, con la scossa delle 19 e 30, ad aggiungersi agli altri 5. Noi non c’eravamo, avevamo ripreso l’autostrada per Roma dopo aver assistito ad altri crolli e ad altri scavi, anche oltre il centro storico, all’Aquila. La scossa ben oltre i 5,4 gradi ci ha spostato l’auto mentre guidavamo verso Avezzano. E abbiamo immaginato, e poi ricevuto conferma, di altri crolli ancora e altri morti. Che si aggiungono agli altri, ai tanti, che stanno ancora sotto le loro case. Perché qui i morti si troveranno ancora per giorni. Dicono che saranno 400, 500 vittime. Sempre che la terra, ora, si quieti.

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