TERRREMOTO – Affaire “Puntellamenti”: Scandalo aquilano e complicità romana?

Redazione
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fontespizio-relazione.jpgESCLUSIVO! – Già a venti giorni di distanza dal sisma, una relazione tecnica riservatissima voluta dal Ministero dell’Interno riteneva, a proposito delle puntellature eseguite ad Aquila, che «non tutte fossero necessarie», e attestava come molte altre «non rispondessero allo scopo cui tendevano [per via del] modo con cui venivano eseguite»….

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Negli Abruzzi, il municipalismo – almeno quello deteriore / che ne esiste anche uno “alto”, di municipalismo; che incita cioè ad apprezzare e tenere nel giusto conto la propria millenaria civilizzazione, la stratificazione del territorio di origine e della cultura occorsa a farlo crescere, senza esagerarla ma senza neppure rubricarla come paccottiglia ingombrante della quale liberarsi – è arrivato sino al punto di determinare l’annessione dei fatti naturali e delle ricorrenti catastrofi occorse a determinati comprensori, in una poco comprensibile rivendicazione identitaria delle disgrazie, soprattutto se immani, quando meglio si sarebbe fatto a studiare i fatti e gli accadimenti in un’ottica di territorio più larga, più vasta. Nemmeno molto più vasta, poi, a rifletterci bene.

Così, i terremoti di inizio Settecento sugli Appennini abruzzesi, sono andati, in dote storiografica, a L’Aquila città e alla Valle dell’Aterno nonché a Sulmona e alla Valle Peligna, e ben poco si è indagato su quali siano stati gli effetti dei terremoti dell’anno 1703 e dell’anno 1706 sul contiguo territorio della Marsica, per il quale la sorte ne teneva in serbo uno ancor peggiore, del 1915 (da un punto di vista geologico stiamo evidentemente parlando di distanze temporali risibili, addirittura trascurabili: pure inezie infinitesime). Eppure, per quel che se ne può capire, tali conseguenze settecentesche furono tutt’altro che trascurabili nella Marsica, a giudicare dalle poche fonti scritte e dalle tracce lasciate (e da quelle cancellate).

Analogamente, il sisma del 13 gennaio 1915 è passato alla storia (nemmeno troppo) rubricato come «terremoto di Avezzano» e della Marsica, e ben poco ci si è industriati per comprenderne gli effetti da questo prodotto a poche decine di chilometri, ed in particolare nel capoluogo di provincia. Simbolicamente, all’atto del disastro, il governo Salandra realizzò quel che alcuni autonomisti di paese tuttora vagheggiano (con un’elaborazione teorica a dir poco afasica), staccando Avezzano da L’Aquila ed affidando la gestione del circondario di Avezzano, oltre che ai militari, ad un commissario civile, Secondo Dezza, con poteri, di emanazione e direzione romane, di gran lunga superiori a quelli conservati dal povero prefetto di Aquila sul territorio residuato da cotanto taglio. Circostanza che ha determinato anche una certa cesura tra le fonti, e nel dibattito pubblico.

All’epoca, dinanzi alla scomparsa di interi centri sulle sponde del Fucino, i giornali misero in un canto la situazione del capoluogo, poco o punto occupandosene. Pure, anche Aquila città (senza ancora la «L’» e ancora priva delle tante frazioni che oggi conosciamo, aggregate solo nella seconda metà degli anni Venti, nell’ultimo tentativo di contrastare l’egemonia della Costa sui tre Abruzzi, lamentò alcune vittime, sei, ed un gran numero di edifici [che nell’immediato si stimò addirittura tra il 50 ed il 70% del totale] subì, come è logico, stante la relativa vicinanza con l’epicentro e la devastante potenza di quel sisma (che, senza cadere nel sopra deprecato dibattito annessionista su chi abbia avuto la disgrazia più grande, fu infinitamente più potente di quel che ha infine flagellato L’Aquila il 6 aprile 2009) danni tutt’altro che trascurabili, testimoniati anche da un’iconografia raffigurante delle baracche dinanzi a quello che sarebbe poi assurto al rango di Emiciclo della Regione e che era nato per ben altro.

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Le carte di archivio ci mostrano come un vasto movimento tentò, subito dopo il sisma del 13 gennaio, all’atto della predisposizione dell’elenco dei comuni danneggiati, già nel corso della ricognizione effettuata dalle Autorità sui danni patiti dai singoli circondari, di far inserire Aquila città nel cosiddetto primo elenco, ovvero nel novero di quei comuni maggiormente danneggiati che, in quanto tali, avrebbero avuto una maggiore quantità di guarentigie ed esenzioni dal pagamento di imposte (per intenderci: Avezzano, Sora, Pescina…).

Al ministero dell’Interno (che, al tempo, aveva un solo sottosegretario e nessuna Protezione civile a diminuirlo), ricevute le giaculatorie del prefetto Scamoni, della Deputazione provinciale, dell’onorevole Gennaro Manna nonché un gran numero di commendatizie (decisamente troppo commendatizie, date le circostanze) attestanti danni e disastri, nella terza decade di quell’infausto gennaio 1915, si sono già provveduti affidando un incarico riservato per avere una relazione esatta sulla situazione di Aquila – si noti: pur in presenza di tutti gli organi tecnici deputati alle verifiche, dei Lavori pubblici, regolarmente sul posto (anche il Genio civile, il braccio operativo dell’epoca, venne sdoppiato, creando ad hoc un ufficio ad Avezzano, poche ore dopo il terremoto, che ebbe giurisdizione propria su tutta la Marsica: altri tempi, evidentemente!, cosicché Aquila funzionava di suo); a conferma del fatto che la questione fosse delicata al punto di non potersi fidare nemmeno di chi operava istituzionalmente in loco – tanto che nel momento nel quale anche il consiglio comunale aquilano si unisce al coro delle proteste per essere stato destinato (ufficiosamente) al secondo elenco, in pratica il braccio operativo del governo Salandra, il Comitato Terremoto che siede all’Interno (dicastero al cui vertice, si noti, c’è lo stesso Salandra), è già sulla via di ricevere la relazione dell’ingegner Primo Comitti, che confermerà molti dei sospetti nutriti dal centro sulla effettiva situazione aquilana, che i documenti ci hanno tramandati.

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La lettura di detta relazione Comitti – qui sotto riprodotta in immagine, nella sua interezza, è di sicuro interesse, per i molteplici passaggi che la fanno assurgere ad autobiografia di una nazione che nelle emergenze è quasi sempre preda di una coazione a ripetere cose che non meriterebbero replica: talmente identica a se stessa, che nel lancio dei giorni scorsi, alla parola “sisma” in molti hanno automaticamente associato la data del 6 aprile 2009 (cosa ragionevole) ma talmente identica a se stessa che il passaggio, sempre nel lancio, sulle puntellature eseguite ad Aquila, che «non tutte fossero necessarie», e come molte altre «non rispondessero allo scopo cui tendevano [per via del] modo con cui venivano eseguite» è stato dato per plausibile, quando non per certo, per l’oggi (e qui forse vi è del patologico, a prescindere).

Le mende evidenziate il 31 gennaio 1915 nella relazione Comitti trovano una curiosa e dolorosa eco, pur nel mutamento delle prospettive e dei tempi (assolutamente non paragonabili), nelle cronache post 2009. Una lettura del testo, a chi avrà la forza di sottoporsi allo sforzo, rivelerà sorprendenti analogie che, lungi dal costituire la curiosità di un mal congegnato pesce d’aprile, sono, forse, l’epifania del carnascialesco drammatico che ci contraddistingue, dove per una volta gli Abruzzi sono uniti in un sol fascio e quasi tutta l’Italia si ritrova nel medesimo cono d’ombra di un eterno disastro.

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