Terremoto della Marsica – Sette giorni dopo

Giuseppe Pantaleo
Giuseppe Pantaleo
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Layout 1Edito da: Aleph editrice, Luco dei Marsi 67056 Aq
Homepage: site.it – E-mail: aleph@site.it
Edizione: aprile 2017

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Giuseppe Pantaleo

Sette giorni dopo

Una recensione

 

Il Centenario del terremoto nella Marsica ha dato l’impulso a una lunga serie d’iniziative di cui ho trattato diffusamente altrove. Un momento rilevante – il più importante secondo me – è rappresentato dal convegno di Pescina del 17 gennaio, organizzato da Ingv e dal Dipartimento di Architettura dell’università G. d’Annunzio. Scrivo qualcosa sulla base delle suggestioni seguite alla lettura degli atti, pubblicati pochi mesi fa: (a cura) F. Galadini e C. Varagnoli, Marsica 1915-L’Aquila 2009. Un secolo di ricostruzioni, Gangemi Editore 2016.

La peculiarità dell’incontro è dovuta al fatto che non si è trattato di un’iniziativa appiattita sul format del momento celebrativo incentrato sulla giornata del 13 gennaio, bensì su una serie di avvenimenti che hanno portato i centri del comprensorio marsicano ma non solo a essere in buona parte tali come oggi noi li vediamo: ciò che è successo – per così dire – sette giorni dopo, con i morti quasi tutti recuperati, i superstiti allontanati o sistemati nelle tende e le costruzioni pericolanti in via di abbattimento; in breve, quando la razionalità ha occupato il posto del dolore e delle emozioni. Nelle celebrazioni degli anni passati ciascuna cittadina ricordava i compaesani morti e non ci si curava degli altri abitanti del cosiddetto cratere o dei confinanti; neppure se lo stato centrale avesse trattato questi meglio nelle varie fasi post-terremoto, nemmeno se lo stesso stato, a distanza di tempo, si fosse comportato diversamente in occasioni simili, tipo il Belice o il Friuli. Le due celebrazioni successive al Centenario sono state uguali alle solite cui ci si è assuefatti negli anni: delle rassegne a base di vecchie fotografie, luoghi comuni, «Popolo Marso» e ricostruzioni storiche almeno fantasiose. I residenti per la verità vogliono udire proprio quel tipo di narrazione perché non inquieta e soprattutto non impegna in alcun modo; si è perciò liberi nella coscienza di acquistare il casolare in pietra da ristrutturare o di raccomandare al progettista di non abbondare nel ferro nella struttura dell’edificio in costruzione – «Tanto regge uguale». A Pescina nel 2015 si è ascoltata una musica diversa, capace d’interessare almeno le altre popolazioni che vivono sull’Appennino; non si è registrato l’usato ricorso all’aneddotica, alla retorica, ai sentimenti o alle commedie «dialettali» – generalmente piegate ad altri interessi –, si sono bensì viste in azione pratiche, sapere e scienza – quest’ultima prelude alla comunicazione, al confronto con gli altri e all’utilità. Gli atti del convegno mostrano distintamente diverse pagine poco o per nulla edificanti della storia marsicana nascoste con un certo zelo per decenni dall’intellighenzia locale vecchia e nuova; soprattutto in occasione del Centenario stesso – Ingv e università d’Annunzio d’altra parte, hanno lontane le loro sedi, in molti sensi, dal nostro comprensorio. Il volume è importante per la Marsica perché tratta di avvenimenti recenti – un caso poco comune nel panorama locale –, che fanno meglio comprendere l’attualità; è stata in verità rivoltata più di una zolla di terra in una zona in cui purtroppo germoglia poco. È in ogni modo una miniera di spunti per interpretare l’attualità. (Ho preferito utilizzare il più possibile le citazioni, per far circolare maggiormente quelle idee).

 

Provo a raccontare come ho metabolizzato in qualche modo tale pubblicazione, quali meccanismi mentali mi ha smosso nell’affrontarla.

Durante l’adolescenza e la giovinezza evitavo d’avventurarmi lungo una parete montuosa esposta a sud durante l’innevamento – soprattutto nelle giornate soleggiate; ugualmente non mi è mai balzato in mente di piazzare una tenda sulle rive di un fiume o presso un torrente. (Ci ho ripensato dopo aver osservato alcune fotografie che mostravano un’abitazione allagata dopo il flash flood nella valle del Liri, l’autunno scorso).

Guardo poco o niente la tv e non mi piace molto sbirciare le immagini al computer per cui una delle scene riguardanti le catastrofi che conservo fa parte di un servizio televisivo girato in un villaggio dell’Anatolia dopo un terremoto in cui gli sparuti superstiti si aggiravano con una sacchetta a tracolla (Omnia mea mecum porto) e abbandonavano quel posto – per sempre come ho immaginato. La conservo perché rimanda a una maniera di comportarsi aurorale, primordiale dell’uomo – perché siamo un po’ diversi adesso; vi è una serie di pensieri e gesti registrati e nascosti nella mente, nel nostro corpo dietro tale condotta.

Gli uomini hanno preso a conservare solo da alcuni secoli le tracce del proprio passato; un tempo ci si trasferiva o si distruggeva un villaggio anche esteso senza pensarci troppo. Gli agglomerati di rado sono abbandonati dai loro abitanti, ma succede; il fenomeno è più comune ai nostri giorni per via degli accelerati cambiamenti climatici sul Pianeta. Nel volume in questione non a caso è riportato: «In Italia sono decine, forse centinaia i paesi, le frazioni, le cittadine che sono state abbandonate dopo eventi naturali, ma molte di più sono quelle che sono risorte sulle proprie rovine, sulla scorta di un concetto spesso malconsiderato, il com’era dov’era» (A. Tertulliani).

È anche utile ricordare che le costruzioni tendono a sprofondare secondo il tipo di terreno su cui sono impostate.

Io colloco perciò il tema della ricostruzione in quello più generale dell’abitare, del modificare incessantemente le nostre città; nella cultura europea abbiamo delle discipline che regolano il costruire e i cui precetti possono cambiare secondo le epoche e la geografia, ma sono presenti, vivi. È tra l’altro semplice da noi, perché ci si ritrova generalmente immersi in una fitta rete di relazioni, direzioni e tracciati intessuta nei secoli passati: è sufficiente perciò aggiungere, elaborando delle nuove forme. La vicenda locale ci ammaestra sulla crisi delle pratiche legate all’abitare nel Vecchio continente; nel Novecento soprattutto, il metodo compositivo ha avuto possibilità di arricchirsi di nuovi elementi, invece il bagaglio del singolo progettista si è addirittura alleggerito, negli ultimi decenni: il punto è proprio questo secondo me. Non posso perciò non concordare quando leggo: «c’è bisogno di un approccio davvero olistico, in grado di favorire il dialogo dei saperi» (A. Clementi). Non è, infatti, improbabile, incontrare nella cronaca dei nostri giorni un impianto per lavorazioni pericolose – anche di brutto aspetto – posto in zona ad alta sismicità, un invaso progettato su un’area archeologica, un cavalcavia standard su un’arteria molto frequentata tirato su al risparmio.

Il volume in questione ci segnala una serie di danni e manomissioni inflitte a tale groviglio da un evento calamitoso e dal successivo intervento dell’uomo; in esso è descritta anche l’evoluzione di tale situazione nel corso dei decenni. (Da noi s’indugia invece nello studio – non critico, ça va sans dire – di documenti e degli sparuti libri che trattano della nostra terra appartenenti al passato).

 

Nel resto del mondo animale non c’è alternativa, tra la lotta o la fuga in caso di pericolo o calamità; tra gli umani, esse sono invece delle polarità nel senso che vi è un’ampia gamma di possibilità tra l’una e l’altra. Chi sopravvive a un terremoto, un’alluvione, un incendio resta in generale, a differenza di quanto si possa facilmente immaginare dando una scorsa alla vita dell’uomo negli ultimi 2,5 milioni di anni; solo pochi vanno via. Succede questo sia per la gran quantità di simili sul Pianeta sia per i numerosi canali, i rapporti tra le varie popolazioni: è comune ricevere degli aiuti, dei fondi per rimediare al danno e un sostegno prolungato da parte delle istituzioni nazionali e internazionali. È stato diverso per millenni; un tempo, si usciva da una città – fondata attraverso complicati rituali, con i suoi assi principali, i suoi temi collettivi, i suoi dei e le sue porte –, e ci si spostava in un’altra senza badare alla distanza, ai confini. (Passando ancora attraverso un’altra porta – le città sono state provviste di mura fino all’esplosione demografica del Settecento). Erano luoghi simbolici, oltre a essere sicure perché la vita quotidiana era protetta dalle leggi. Chi si allontanava raggiungeva un altro agglomerato e si adattava agli usi e ai costumi locali; oggi succede di rado che tutti gli abitanti di una città appena colpita da un evento catastrofico come un terremoto, si allontanino per fondarne una nuova. È però più interessante il secondo caso perché consente di percorrere a ritroso almeno sei millenni di storia dell’urbanizzazione e non solo: dove ti stabilisci, ripeti qualcosa dello schema precedente nel nuovo impianto, cambi tutto e t’ispiri alle idee del momento, eccetera. Ecco, la nostra natura ci spinge a muoverci costantemente e per ogni minima evenienza mentre la cultura e le competenze accumulate negli ultimi secoli quasi c’impongono di restare dove noi ci troviamo o al massimo, ci fanno proporre lo stesso tipo di spazio (singolo, collettivo) dove noi andiamo a colonizzare, affiancati o a distanza di pochi chilometri dall’abitato originario. Si può perciò operare in molti modi (restaurare, ricostruire, costruire, fondare), ma sempre secondo delle regole tramandate.

Chi resta, prende dopo un po’ a restaurare, ricostruire, costruire. Si è posto diverse domande, una volta che ha deciso di proseguire la propria vita nello stesso posto: Butto giù che cosa? Conservo che cosa? Posso modificare leggermente l’asse principale per ottenere un piccolo slargo, che fa sempre comodo? L’ambulatorio che mancava al posto della parrucchiera? Come recuperare lo spazio abitativo impiegato per il nuovo teatro al centro: dentro l’area della palestra crollata o nella periferia sud? Impiego le vecchie tipologie per le abitazioni da ricostruire o m’ispiro alla novità del momento? Cambio il regolamento edilizio, il Piano del Colore?

Non si ricostruisce un’abitazione privata «com’era, dov’era», ma si spende molto tempo e denaro per riparare, restaurare, tirar su nuovamente un tema collettivo: una chiesa, il municipio, il teatro, eccetera; talvolta ciò non è però successo. C’è chi osserva: «La Marsica è disseminata di centri e monumenti non ricostruiti, oggi ridotti a rudere e ricoperti di vegetazione» (C. Varagnoli). Lo stesso autore elenca diversi esempi di edifici e siti abbandonati o finiti male nella Marsica: Santa Sabina (San Benedetto dei Marsi), San Berardo (Pescina), San Nicola (Massa d’Albe), Santa Maria Bambina (Morino), la Natività e Santa Maria delle Grazie (Balsorano), l’abitato di Gioia Vecchio (Gioia dei Marsi). La chiesa nella città di Mazzarino fu: «demolita negli anni Cinquanta, sulla base di perizie del Genio Civile a favore di una malintesa visione che voleva il nuovo centro cittadino più a valle» (C. Varagnoli). È ricordato anche l’abbattimento di una vecchia chiesa ad Antrosano (Avezzano); tale caso rimanda a un’antica pratica ancora in auge: «Prima della fine, queste chiese vengono spogliate dei pezzi in pietra scolpita […] per poi alimentare mercati antiquari illegali» (C. Varagnoli). Imbattendoci in una qualsiasi costruzione abbandonata dal 1915, ci colpiscono le bucature da cui sono state prelevate, con cura, ogni pietra lavorata – portali in particolare –, esse finiscono generalmente inglobate nelle seconde case o nei «grottini» di gente del posto.

 

Ricordo quando mi portavano in giro da bambino per i paesi del nostro Appennino; io notavo la stranezza o una sorta di estraneità delle «casette asismiche» alla trama del costruito, di quei bassi parallelepipedi bianchi che spuntavano a un tratto tra le vecchie costruzioni e le prime pur apparendo nella loro giovane età, mi sembravano più brutte delle altre realizzate con pietre irregolari e dagli infissi vecchissimi. Esse erano per me un elemento caratteristico del paesaggio abruzzese, delle mie parti, ho perciò avuto una sorta d’illuminazione, nel leggere alcuni decenni dopo: «Le ricostruzioni in Italia costituiscono un nodo storico, che ha segnato le vicende di intere comunità e di vaste aree di territorio» (S. Castenetto).

Dopo il terremoto nell’Italia Centrale del 1915 si sono contati moltissimi morti, vi sono stati anche degli attendati presso i luoghi della catastrofe, dei ricoverati presso ospedali fuori del cosiddetto cratere, degli sfollati e dei trasferiti. Qual è stato l’atteggiamento del Regno d’Italia, con la guerra alle porte? «L’opera governativa si prefiggeva di ripristinare, nel minor tempo possibile, le normali condizioni di vita» (C. Cipriani). È poi iniziata la lentissima opera di ricostruzione. (Vale la pena ricordare che la piazza principale d’Avezzano è stata completata a quasi mezzo secolo dal sisma. La piazza europea è un poligono racchiuso da edifici…). È da segnalare in proposito, tale considerazione riguardo al trattamento delle diverse situazioni: «Rispetto a Avezzano, capoluogo della Marsica, affidato dopo il terremoto a ben altre sorti e progressive, i piccoli borghi orbitanti intorno ad esso hanno goduto di scarsa attenzione, a dispetto pure della loro storia» (L. Serafini).

Si ricostruisce ciò che si nota, cui si attribuisce (in genere collettivamente) un valore. Da oltre un secolo abbiamo rimosso o dimenticato il mondo legato alla transumanza perciò comunemente, noi ignoriamo l’esistenza e lo stato di conservazione delle chiese costruite lungo quei tracciati; si tratta di un periodo piuttosto importante per la storia dell’Abruzzo di quello interno in particolare; chissà quanti altri resti risalenti a epoche precedenti, sono stati inghiottiti dal terreno, fino a una certa quota lungo i fianchi delle nostre montagne…

 

Gli interventi post-sisma delle autorità centrali e locali sono sintetizzabili in quattro categorie da immaginare a volo d’uccello: «In zone di pianura l’insediamento delle baracche asismiche fu collocato ad un’estremità del vecchio borgo abitato, lungo l’asse viario di collegamento principale», «Nei paesi pedemontani, intorno all’alveo del Fucino, dove il centro abitato è quasi sempre disposto lungo un crinale o in zona scoscesa, l’insediamento delle baracche fu concentrato in un’area a margine del paese superstite», «In quei paesi dove fu invece possibile reperire aree dentro il nucleo antico, le baracche furono sistemate all’interno del tessuto urbano esistente», «Nelle aree prevalentemente montuose si preferì spostare il nuovo centro abitato più a valle, in zona più pianeggiante e in prossimità di un’importante arteria viaria» (C. Cipriani).

Tale processo ha interferito gravemente e non di rado con le preesistenze; estraggo un caso paradigmatico: «ad Aielli, […] anziché recuperare i manufatti preesistenti, il Genio Civile di Avezzano all’indomani del sisma inizia le pratiche di esproprio della zona centrale del paese e realizza nei primi anni Venti un edificio ad L, destinato ad edilizia popolare» (C. Verazzo). Si tratta tout court di uno sventramento, inutile girarci intorno; si demolisce un brano di tessuto medioevale ma questo non è sostituito dall’architettura di quel periodo: un Leitmotiv della ricostruzione. Non sono perciò sortite né espansioni, né quartieri e tantomeno città che richiamino in qualche modo lo stile Ottocento da tale fase: «Assai diffusa fu la disposizione delle baracche secondo uno schema planimetrico a maglie rettangolari, posizionato a scacchiera, disegnato dalla viabilità interna, rigido e ripetibile all’infinito» (C. Cipriani). È da incorniciare quel: «ripetibile all’infinito», nemmeno si trattasse di un prodotto industriale o una coltura di batteri in laboratorio. (Nelle ricostruzioni e negli ampliamenti dei paesi che si affacciano al Fucino, io mi sarei lasciato ispirare a livello urbanistico dal contorno dell’ex-lago).

Ricordo un vecchio detto locale in voga tra persone che lavoravano nel settore delle costruzioni, ‘Dove non ha potuto il terremoto, è riuscita la ricostruzione’.

 

Durante la lenta ricostruzione talvolta, sono state intaccate anche preesistenze ancor più preziose; nel sito più conosciuto: «Dalla documentazione del Genio Civile non emerge alcun riferimento ad eventuali ritrovamenti di resti o reperti archeologici [a Massa d’Albe], sebbene i lavori avessero, quasi con certezza, intaccato livelli di interesse» (E. Ceccaroni). In seguito: «Lo spostamento dell’abitato di Albe nella zona in basso diviene, pertanto, ripetuto motivo di violazioni della tutela archeologica» (E. Ceccaroni).

Vi sono elencate delle altre situazioni, su quei siti: «meno esposti e meno percepiti dal punto di vista archeologico [di Alba Fucens], le necessità della ricostruzione hanno a volte imposto la rinuncia, e la seguente distruzione, dei livelli più antichi» (E. Ceccaroni). Si trattava in realtà di preesistenze da mantenere a ogni costo, di spunti di notevole interesse progettuale per eventuali espansioni o per alcuni tipi di delocalizzazione. In val Roveto: «La documentazione attesta, ad esempio, il caso di Civitella Roveto dove, nel 1922, viene concesso il nulla osta per la demolizione di ruderi romani presso la stazione» (E. Ceccaroni). A San Benedetto dei Marsi nonostante la «consapevolezza di un sottostante livello archeologico era avvalorata dalla persistenza visiva e paesaggistica di alcuni monumenti; tra questi, i Morroni», succede che: «In alcuni casi la ricostruzione arriva ad intaccare il livello di epoca romana, in particolare là dove gli interri risultano di limitata consistenza o dove si procede allo scavo di piani interrati; al 1920 risalgono le prime notizie di ritrovamenti di resti archeologici effettuati durante gli scavi per le nuove fondazioni» (E. Ceccaroni).

Oltre agli sventramenti di tipo classico, sono eliminati, rimossi elementi in ogni modo importanti per il presente e il futuro dei paesi: «Sganciata da una conoscenza scientifica della preesistenza, la ricostruzione prese un indirizzo puramente speculativo dopo il 1945 e particolarmente negli anni Cinquanta, con la scomparsa di molte chiese minori a vantaggio di progetti estranei al contesto storico e paesaggistico e da una ricerca architettonica di valore» (C. Varagnoli). La zona ha subito tre prolungati momenti di emergenza o presunta tale: il terremoto del 1915, il secondo dopoguerra e il boom economico negli anni Sessanta protrattosi fino agli Ottanta; in poco più di mezzo secolo, si è costruito in modo tale da annegare i vecchi insediamenti in un’architettura improvvisata, anonima, talvolta fuori scala. Si è badato poco anche alla conservazione di ciò che era stato risparmiato dal terremoto appartenente alle epoche precedenti, di elementi talmente vasti o voluminosi in particolare, da rimanere… fuori dall’immaginario dei residenti; mi sono più volte lamentato della maniera di mantenere le cinte murarie di Celano: succede questo perché in Italia si punta generalmente l’attenzione sull’affresco, la statua, il dipinto o sulla costruzione di pregio mentre sono ignorati il tracciato, gli assi, la tessitura di una città – da cui è impostato il resto.

Nel caso dei restauri, un’autrice mi ha ricordato qualche lacuna osservata in gioventù: «Nei cantieri di restauro si assiste, con l’avallo di personalità di spicco, all’applicazione diffusa d’elementi in calcestruzzo, quali espedienti per la riparazione post-sisma, ma anche all’introduzione del principio d’invisibilità del consolidamento e alla necessità di celare tali dispositivi» (C. Verazzo).

 

Come si costruiva nella Marsica prima del terremoto del 1915? «Dalle foto di Albe è possibile rintracciare una tipologia edilizia diffusa nei centri marsicani. Si tratta della presenza di un grande androne introdotto da un arco a tutto sesto che immette all’unità abitativa singola, accorpata o confinante. Una scala consente l’accesso al livello superiore del civile, mentre dal medesimo androne, scendendo qualche gradino, si accede al fondaco o alla stalla» (C. Verazzo).

Non si andava in realtà molto in alto con le abitazioni nelle zone ad alta sismicità, nella Penisola: «Il tema del diradamento che all’epoca del terremoto già circolava in Italia, […] ha trovato nelle aree colpite uno dei suoi primi ambiti di applicazione, trasformando i fitti tessuti edilizi della tradizione in una realtà finalmente sfrangiabile, secondo le istanze igienico sanitarie dettate dalla modernità. […] il diradamento ha guadagnato qui una singolare declinazione, realizzandosi non solo in senso orizzontale, […] ma pure in senso verticale, con la revisione delle loro altezze» (L. Serafini). Ciò influiva anche a livello urbanistico dopo gli eventi catastrofici, perché: «la diminuzione dell’altezza degli edifici ha come conseguenza la necessità di un’area più ampia ove realizzarli», come avvenuto a Gibellina nel 1968 (F. Galadini).

 

Si sono mai resi conto gli abruzzesi, di vivere in una zona soggetta a terremoti? È segnalato l’impiego di «presidi antisismici» nella Penisola dalla seconda metà del Quattrocento; si è poi assistito a un’accelerazione nel Settecento, quindi un periodo di oblio (M. D’Antonio). In seguito a una serie di terremoti disastrosi, Ferdinando iv di Borbone aveva emanato una serie di norme per la sicurezza degli edifici (1784): «Il cosiddetto sistema delle “case baraccate” prevedeva la costruzione di edifici di non oltre due piani, la demolizione dei piani in più, la rimozione di balconi ed altri elementi sporgenti, l’incatenamento delle travi e dei solai alle mura, l’eliminazione dei tetti spingenti» (S. Castenetto). (La «casa baraccata» riprende in qualche modo il Fachwerk germanico affogandolo però nella costruzione). Si era mosso in tal senso anche lo Stato pontificio; «Dopo l’unità d’Italia, il governo piemontese non recuperò, estendendoli all’intero territorio nazionale, i principi di tali norme [antisismiche], ma anzi li abbandonò» (S. Castenetto).

Tra gli esempi marsicani di presidi antisismici, segnalo giusto alcuni «radiciamenti» in manufatti abbastanza conosciuti (Castello Piccolomini, Santa Maria Valleverde, gualchiera) a Celano (M. D’Antonio). Succede sempre qualcosa a livello legislativo dopo una catastrofe, riporto in parte un illuminante allegato prodotto poco dopo il sisma nell’Italia Centrale; è attualissimo: «Le fondazioni, quando è possibile, debbono posare sulla roccia viva e compatta opportunamente ridotta a piani orizzontali e denudata del cappellaccio, ovvero essere opportunamente incassate nel terreno perfettamente sodo […] Nel caso di edifizi intelaiati o baraccati le costole montanti o i ritti dell’armatura debbono essere infitti a perfetto incastro nella roccia od in una platea generale armata, o essere collegati ad un robusto telaio in base formato con membrature rigide. Per gli edifizi di muratura ordinaria le fondazioni debbono essere costituite da muri continui concatenati fra loro e non essere mai appoggiate su terreni di riporto, salvo il caso di platea generale» (r.d.lg. n. 573/1915 art. 5).

Dopo il sisma nell’Aquilano, ho assistito dalle mie parti alla distruzione di un paio di case l’anno, risalenti a un periodo tra gli anni Dieci e Venti del Novecento; i muri esterni erano una confederazione di materiali da costruzione, sistemati talvolta alla rinfusa con la malta tanto per chiudere le facciate. Avezzano è stata ricostruita «com’era», con le pietre raccattate qua e là, anche quelle appartenenti a edifici di un certo interesse come Castello Orsini ma spostata verso nord; è facile chiedersi: perché non hanno impiegato le tecnologie – anche antisismiche –, i materiali in uso in quel periodo? (Negli anni Dieci del Novecento si notavano già i primi grattacieli negli Stati Uniti e in Europa s’impiegava il vetro e il ferro nelle costruzioni). È in realtà ricordato nella raccolta di saggi: «in un Paese in cui domina la logica del profitto e scarseggia quella della conoscenza e dell’integrità morale e deontologica le responsabilità sono certamente molteplici: di professionisti disattenti o poco lungimiranti che hanno difeso tecnicamente soluzioni progettuali inaccettabili; di imprese spregiudicate che hanno realizzato male, che hanno anteposto il guadagno alla sicurezza, che spesso hanno costruito senza conoscere le caratteristiche geologiche, geotecniche e sismiche del sito; delle direzioni lavori e di funzionari pubblici troppo spesso distratti da altre e più importanti questioni» (N. Tullo). L’attenzione per il dettaglio e la miopia nei confronti dell’organismo, è declinata anche in ciò che riguarda la localizzazione dell’intervento e la costruzione stricto sensu: «Il cittadino, come si sta verificando anche nelle zone terremotate fuori dall’ambito della ricostruzione, quando non è lo Stato a intervenire finanziando gli interventi, è disponibile a spendere cifre notevoli per l’arredo, per la rubinetteria, ma non è disponibile a spendere nulla per indagare e conoscere il sito dove deve realizzare la propria abitazione, il capannone per la propria attività o qualsiasi altra cosa» (N. Tullo).

È bene far risaltare in positivo o in negativo la preesistenza perché anche nel muro più malandato: «Capita sovente che la stessa parete possa contenere brani murari medievali, rinascimentali, settecenteschi, ottocenteschi fino alle più recenti risistemazioni, tutti raccolti nello spazio di pochi metri quadrati» (M. D’Antonio). La città in molti casi può essere inquadrata come un museo di tecnologie costruttive all’aria aperta: «La vita dell’edificio, del comparto, del centro urbano si può, si deve conoscere prima di intervenire, perché nell’oggetto stesso del nostro intervento stanno registrate tutte le ragioni della sua sopravvivenza fino a noi, tutte le cause della sua precarietà, tutte le motivazioni della sua criticità, tutta l’essenza stessa del significato che oggi rappresenta e che fa esigere che noi lo conserviamo, ancorché profondamente sconvolto dagli eventi e perfino minato nella sua stabilità» (F. Redi).

 

Che cosa succede alle comunità di viventi in caso di catastrofe naturale (incendio, alluvione, terremoto)? Si disgrega il gruppo, per quelli di media e grossa taglia: i più giovani e forti si allontanano mentre i più vecchi e deboli restano dove si trovano coscienti di avere i giorni contati. Tali fenomeni modificano gli habitat (naturali, artificiali), a tal punto da rendere difficoltoso o addirittura impossibile, continuare a viverci. Ci si sposta dove? Gli umani si sono insediati per millenni, lungo dei percorsi, dove era facile soddisfare le proprie esigenze in termini di sole, acqua, legna da ardere e da costruzione, cave di pietra e metalli, pascoli, campagna, eccetera. Noi contemporanei abbiamo perso la conoscenza di come si procedeva un tempo e abbiamo poco chiaro come bisogna agire oggi, eppure dovrebbe essere più agevole per via delle cartine in cui sono rappresentate le infrastrutture, la campagna, i gasdotti, le discariche, le aree archeologiche, quelle naturalistiche protette e quelle sismiche, i tracciati ferroviari, i corsi d’acqua, le cave. Dovremmo avere qualche difficoltà in realtà, perché noi che viviamo lungo l’Appennino, siamo abituati a pensare (è un pio desiderio il mio) per vallate mentre ci confrontiamo con un confine amministrativo o con una faglia attiva, che hanno ben altro andamento rispetto alle precedenti. (A proposito: li chiameremo vincoli o dati di progetto?). Nell’affrontare una nuova costruzione si presentano le stesse questioni del ricostruire in un luogo che già c’è; è comune – dovrebbe esserlo – lasciarsi ispirare da un tracciato, una direzione, una tessitura, un limite nel progettare un nuovo insediamento: «La ricostruzione post-terremoto si configura come uno dei casi in cui la preesistenza archeologica deve trovare una sua nuova identità, nell’opzione duplice di mantenere il suo rapporto con le successive fasi architettoniche o di emergere nel panorama circostante allo stato ruderale, privata della sua successiva stratigrafia architettonica e storico-artistica che le conferisce una valenza ampliata» (E. Ceccaroni).

 

Uno stimolo alla delocalizzazione è venuto dalla crisi della pastorizia transumante in Abruzzo; il contemporaneo prosciugamento del Fucino nella Marsica, ha portato all’emersione di Avezzano come capoluogo. Ambedue i fenomeni in realtà si stagliano in qualche modo nel quadro più ampio delle migrazioni verso il Nuovo continente che hanno trasferito in sessant’anni, cinquanta milioni di europei. È un fatto che molti abitanti si allontanavano dai centri posti più all’interno per raggiungere arterie più trafficate, com’è spesso successo nei momenti critici o d’incertezza delle popolazioni umane: «il fenomeno di migrare dagli antichi centri rurali, soprattutto d’altura, verso zone più a valle si registrò già prima del terremoto» (C. Cipriani); sarà perciò interessante calcolare tra qualche lustro l’effetto del circuito dell’Alta velocità nella linea ferroviaria nazionale, sull’attuale modello di sviluppo basato sulle coste, in modo particolare nella fascia adriatica tra Ancona e Bari.

 

Il terremoto del 1915 è perciò un caso in cui: «le catastrofi naturali non sono altro che acceleratori di pratiche spesso auspicate dai politici e da buona parte della popolazione» (F. Galadini). Le nuove dislocazioni a brevi distanze dagli agglomerati originari sono state delle mosse sbagliate o indovinate, in questa parte degli Appennini? (Dalla metà dell’Ottocento, le migrazioni hanno mutato alcune delle loro caratteristiche). È una faccenda che riguarda gli storici nonostante i preziosi materiali a disposizione nel libro.

 

L’ambiente montano ha iniziato proprio negli anni Dieci del Novecento a vedere i primi interventi da parte dello stato centrale; un lavorio che durerà alcuni decenni e che innescherà nel medio periodo, in numerosi casi dei dissesti idro-geologici. Più boscaioli, pastori, contadini e perciò più «guardiani del territorio» avrebbero migliorato poco la situazione e per almeno un paio di generazioni, considerando che dagli anni Sessanta del secolo scorso fino agli inizi dell’attuale, sono stati notevolmente ridotti i fondi per mettere in sicurezza i territori dalle frane.

 

Si registra una gamma di reazioni dal segno diverso difronte alle catastrofi in generale. Nel caso di terremoti, può spostarcisi in una zona meno pericolosa per le strutture degli edifici, per diversi motivi: è una questione di tipo tecnico-scientifico mentre nel quinto saggio – ma non solo –, s’intravede anche dell’altro; in esso è raccontato come si passa dalla ricostruzione alla delocalizzazione: la seconda non è ineluttabile. Nel nostro caso, com’è sintetizzato nella conclusione: «se le valutazioni geologiche hanno avuto un ruolo nel determinare la delocalizzazione, quasi mai hanno vincolato la scelta dei luoghi ove procedere alla ricostruzione» (F. Galadini). In generale, per un’area molto vasta: «Il sospetto, fin da subito, è che se le catastrofi costituiscono lo spunto per il cambiamento, anche in assenza di particolari eventi naturali la fragilità del territorio possa fungere da elemento condizionante [di] scelte volte alle radicali modifiche degli assetti insediativi» (F. Galadini).

Riassumo per sommi capi quattro casi particolari di delocalizzazione trattati in maniera dettagliata (Aielli, Frattura, Pescina, Gessopalena).

L’abitato nel primo caso è stato raddoppiato; il nuovo insediamento è stato impostato presso un gruppo di abitazioni che avevano resistito al terremoto, lungo la linea ferroviaria Roma-Pescara a 3,5 chilometri di distanza e a ben 250 metri di dislivello – con i mezzi di locomozione di quell’epoca! – dal vecchio paese. Tutto ciò, nonostante: «non sono note criticità geologiche tali da suggerire l’edificazione in luogo diverso da quello dell’insediamento originario. […] L’assenza di particolari criticità è evidenziata dal fatto che questo centro, pur trovandosi nella zona epicentrale, ha subito meno danni di altri abitati dell’area fucense» (F. Galadini). I fautori dell’allontanamento, del raddoppio erano perlopiù commercianti e artigiani cui si era aggiunto l’ex-sindaco che possedeva dei terreni da quelle parti. Tale folto gruppo di aiellesi trovò una sponda nel Genio Civile e nel d.lt. n. 1294/1915. Quest’ultimo: «suggeriva tra i luoghi ove si poteva procedere a edificazione/riedificazione anche le zone pianeggianti adiacenti all’abitato e verso la stazione. In sostanza, si ammetteva comunque una idoneità geologica delle aree prossime allo scalo ferroviario» (F. Galadini). Dove sistemare i temi collettivi, ad Aielli o ad Aielli Stazione? Tutto ciò innescherà mai sopite «contrapposizioni anche tra comunità gemmate da una sola realtà insediativa» (F. Galadini).

Costituisce un caso a parte in Abruzzo e nella Penisola, la delocalizzazione della frazione di Scanno; in tale occasione: «non si è avuto lo spostamento al piano degli abitanti, ma una ricostruzione che è avvenuta “lungo isoipsa”» (F. Galadini). (Frattura è rimasta intorno ai 1200 metri, Aielli invece era stata «raddoppiata» verso il piano da una quota di 1045). Tutto ciò si è avuto in buona parte perché si è ritenuta, in più riprese la: «instabilità geologica, [la] generale “franosità” dell’area dell’antico paese, precedente all’evento sismico» (F. Galadini); nel ricostruire «il Decreto luogotenenziale [d.lt. n. 1294/1915] cita esplicitamente il divieto di edificare in corrispondenza dell’abitato attuale» (F. Galadini). Frattura l’anno seguente entra nel novero dei centri da trasferire (d.lt. n. 299/1916). Gli abitanti non approvarono la scelta a tal punto, che il Ministero inviò una commissione preposta allo studio del caso e alla formulazione di un’ipotesi di delocalizzazione. Anche questa stabilì che il piccolo agglomerato era stato costruito su una massa di detriti derivante dalla frana del lago; mentre: «oggi si può ragionevolmente ipotizzare che l’intero rilievo roccioso su cui fu fondato il paese sia scivolato dal versante del Genzana nel corso di un altro significativo episodio franoso indipendente da quello del lago di Scanno» (F. Galadini). Nella scelta dell’area attuale giocano sia alcuni errori di analisi, sia i progetti troppo ottimistici per l’avvenire: «lo spostamento di Frattura sembra l’esito di più errori di valutazione, probabilmente dettati dalla fretta con cui furono effettuati i rilievi geologici» (F. Galadini), «la questione del limitato spazio disponibile per la ricostruzione era evidentemente legato a un’idea di ripresa sostanziale dell’abitato, di incremento demografico e di crescita economica che sono anch’esse, per l’epoca, facilmente confutabili sulla stessa base dei principi che animano i progetti di discesa al piano» (F. Galadini).

 

La montagna non era più vista come un luogo ameno, romantico o in ogni modo separato dal resto, dagli inizi del Ventesimo secolo: le sue risorse potevano essere utilizzate dalla collettività nazionale; essa fu perciò inglobata da allora nel meccanismo economico. Parte dai primi anni del Novecento una lunga colonizzazione dell’Italia posta a una certa quota messa in atto attraverso strade, interventi sui fiumi, rimboschimenti e allevamento; i massicci investimenti nel settore idroelettrico furono pensati e servirono a diminuire la nostra dipendenza dal carbone. (Il turismo montano è fatto risalire agli anni Dieci). È perciò ipotizzabile che in seguito a tali interventi nella fetta dell’Italia situata oltre i cinquecento metri ci fosse bisogno di altre figure professionali e forse anche, di abitanti. La cronaca recente è punteggiata da dissesti idrogeologici innescati da briglie e dighe lungo il corso dei fiumi – anche dal prelievo degli inerti per uso edilizio –, da strade, diboscamenti e impermeabilizzazioni in quota (rifugi, alberghi, case per le vacanze, bacini, piazzali). Nel corso di un secolo le popolazioni di montagna, non sono state capaci di elaborare, contrattare con i vari governi succedutisi un proprio modello di sviluppo o ad adattarsi a quello proposto dalle grosse città; paradossalmente, sono oggi i «cittadini» che hanno studiato nelle università a rammentare ai montanari – per quanto invano –, che è opportuno non costruire abitazioni nelle aree golenali o non recidere gli alberi sopra le loro teste. (Nonostante tale dispiegamento di denaro dai centri situati in piano, è proseguito il lentissimo e ineluttabile spopolamento delle montagne italiane). I montanari ai nostri giorni vivono generalmente d’assistenzialismo da parte dello stato, soprattutto in numerosi paesi di vecchi sparsi lungo l’Appennino.

A Pescina: «gli eventi chiariscono anche che il terremoto rappresentò l’inizio di un processo altrettanto lungo, protrattosi per parecchi decenni, di sistematica distruzione del centro storico lesionato dal sisma e dal tempo, in un complesso dipanarsi di azioni demolitrici da parte del Genio Civile, accompagnato dalla scarsa attenzione di cittadini, amministratori e politici» (F. Galadini). La città subì numerosi danni in occasione del terremoto del 1915 ma meno dei centri limitrofi; il suo costruito era fino allora caratterizzato da uno stretto rapporto con il Giovenco e perciò con la vallata da esso scavata nel corso dei millenni. Spuntò fuori dopo la catastrofe anche una (tuttora) strana frattura nel terreno; «l’origine della frattura apertasi col terremoto, le varie descrizioni disponibili suggeriscono che essa si trovi in corrispondenza di una delle faglie che attraversano il centro abitato» (F. Galadini). La maggior parte dei sopravvissuti fu inizialmente allocata dalle parti della stazione ferroviaria ma non rimase lì definitivamente, a differenza di altre situazioni simili (Aielli, Balsorano) perché: «non si poneva “in basso” e quindi non favoriva la discesa al piano» (F. Galadini). Nella nuova localizzazione di Pescina hanno pesato al solito i: «limiti di spazio disponibile per la ricostruzione dovuti all’orografia della gola del Giovenco» (F. Galadini), verso il Fucino c’erano più terre e pianeggianti; ciò fece intravedere ai paesani anche un possibile altro modello di sviluppo. La popolazione si divise, come negli altri casi, tra favorevoli e contrari allo spostamento dell’abitato; si schierarono da una parte quelli che avevano interessi nella Piana – la maggioranza: «mentre il resto della cittadinanza era legato al proprietario delle terre in destra del fiume e di parte delle vigne soprastanti. Della minoranza facevano anche parte “una diecina di proprietarii delle altre case rimaste abitabili, pochi artigiani ed una frazione di contadini vignaioli» (F. Galadini). Il centro storico prese lentamente a spopolarsi. È da rammentare che alcuni crolli sotterranei registrati negli anni Sessanta, siano stati presi per frane dal Genio Civile – da cui seguirono interventi… adeguati. Come giudicare la delocalizzazione di Pescina a distanza di un secolo, da un punto di vista della geologia? «guardando alla scelta operata con le conoscenze odierne, non si può tacere che trattasi di un territorio inidoneo alla ricostruzione. In effetti, Pescina Nuova sorge a cavallo dell’emergenza in superficie della faglia che ha generato il terremoto del 1915, certamente attiva, a differenza di quella che interessa il centro storico» (F. Galadini).

Nel quarto caso è ricordata una lunga convivenza con i fenomeni franosi, fin quando dopo un evento sismico, si ha uno spostamento degli abitanti verso un’area più vicina a un’arteria. Secondo un folclorista locale: «L’origine dell’instabilità del pendio viene dal Finamore [Gennaro] riferita al declino dell’industria laniera, e alla modifica dell’economia locale, con processi che alla fine del Settecento portarono all’abbattimento dei boschi» (F. Galadini). Sono segnalati alcuni lavori in proposito nella prima metà dell’Ottocento: «buona parte degli interventi con cui si sperava di ridurre il problema dell’instabilità del pendio consistette nella realizzazione di opere di drenaggio e muri a secco con funzione di contenimento dell’erosione. Contemporaneamente, si procedette a rimboschire la valle caratterizzata dai fenomeni d’instabilità» (F. Galadini). Il terremoto del 1915 provocò dei danni in paese nonostante la distanza dall’epicentro, ma non interferì con l’andamento del processo franoso. Non si pensò altro per alcune generazioni a Gessopalena, se non di mettere in sicurezza il suolo, «di considerare necessaria anche la conservazione del paese nel luogo dell’insediamento originario» (F. Galadini). (Ci si è comportati a lungo in tal modo, in Italia). Nel 1933 un terremoto sconvolse alcuni paesi del Chietino e tra questi, Gessopalena. Dopo solo un paio di settimane, fu deciso dalle autorità centrali lo «spostamento parziale degli abitati» di tre paesi danneggiati. Tutto ciò mette ancora voglia di modernizzazione; una relazione del Genio Civile nello stesso anno appoggia chi vuole spostarsi. I gessani furono soddisfatti della diversa tipologia urbanistica e abitativa, di risiedere in piano; sognarono a lungo anche un modo meno faticoso di guadagnarsi da vivere. È poi segnalato un fenomeno ricorrente in simili situazioni: «Che le questioni geologiche non siano la sostanza dei vari procedimenti, si evince dal fatto che il consistente accumulo di terreno di riporto, necessario alla realizzazione delle varie opere previste dal piano regolatore del nuovo insediamento, col tempo causò cedimenti, piccoli fenomeni franosi e conseguenti lesioni ai manufatti» (F. Galadini). Durante la seconda guerra mondiale il centro riportò delle pesanti devastazioni. Nel 1954 il piano di ricostruzione approvato dal Ministero decise la fine del vecchio centro storico: era una zona instabile da un punto di vista geologico ed era perciò pericoloso rimanere in quelle parti; esso sarà abbandonato definitivamente negli anni seguenti. A tutt’oggi però: «i resti di quel Rione Castello “completamente raso al suolo” sono ancora lì e il terreno non ha trascinato “l’intero colle verso la ‘valle franata’”» (F. Galadini).

 

Si può chiudere, a questo punto. La ricostruzione non ha generalmente proposto a livello urbanistico né lo schema di Torino né il quartiere Prati (Roma); vale lo stesso discorso per l’architettura e le tecnologie edilizie impiegate – una casa in pietra con i ricorsi in mattone resiste quanto un’altra solo in pietra. Non solo. Gli esempi precedenti mostrano che per i nuovi ampliamenti e le delocalizzazioni furono scelti dei siti certo non meno pericolosi degli originari per la loro sismicità – si fuggiva dai terremoti dopotutto –, anzi. (Ha un ruolo in tutto ciò la credenza popolare secondo cui quegli eventi disastrosi si ripetono ogni trecento anni?). Il mio pensiero è che si poteva ricostruire in loco mantenendo però gli elementi strutturali, più importanti dei singoli paesi; un asse, un percorso importante poteva essere ampliato mentre la catapecchia in periferia era bene che seguisse la fine di quelle che l’avevano preceduta.

Nel volume si scorge sotto diverse prospettive una sorta di smembramento delle pratiche, del sapere, tipico dello Zeitgeist novecentesco e l’ingresso nefasto nella pianificazione urbanistica di esigenze immediate e particolari; in esso è denunciato un uso disinvolto quando non strumentale delle scienze, delle discipline legate al costruire. (Ciò rammenta una tattica delle istituzioni per evitare contestazioni, una volta decisa la delocalizzazione: si sparpagliano i residenti per allentare i legami tra loro e con il vecchio centro). Questo ha portato a dei benefici materiali nell’immediato per alcuni ma ha innescato dei processi che hanno portato all’attuale declino, non solo territoriale. Si assistette allora a un lungo processo di «smedievalizzazione» (F. Galadini), ma la modernità si tenne in realtà ben lontana dall’Abruzzo interno, soprattutto dai paesi più piccoli. Troviamo in quel periodo una radice dei comportamenti dei locali: qual è in fondo l’atteggiamento nei confronti delle testimonianze del passato, quello recente in particolare? Si passa senza patemi d’animo dall’indifferenza, dalla distruzione di risorse archeologiche, architettoniche e artistiche alla loro imbalsamazione, al loro uso spettacolare.

 

È rappresentativa la vicenda del paese che ha consolidato il suo ruolo guida nella Marsica, dopo il terremoto. Il suo piano regolatore ha previsto una città con migliaia di (nuovi) abitanti; di là dei suoi pregi e i difetti, è un fatto che i residenti non abbiano saputo o voluto interpretare l’asse principale (municipio-stazione ferroviaria) costellandolo dei temi collettivi presenti e raggruppati intorno alla piazza principale della città vecchia, anziché di abitazioni, negozi e villette. (Ricordo la rimessa dei Vigili del fuoco sul citato asse, a ridosso della piazza principale, negli anni Sessanta). L’Ottocento vissuto nei centri minori è invece stato giusto quello delle strade dritte, più larghe, che formano angoli a 90° quando s’incrociano.

È bene ricordare anche il triste caso dell’ex-via Albense, considerata da chi scrive una sorta di cordone ombelicale con Alba Fucens. Essa fu accorciata senza clamori, pur trattandosi del cardo risalente all’epoca romana; dove termina da allora tale storico tracciato, direzione: in una piazza, un ampio slargo, un edificio di pregio? No, in un muro alto poco più di due metri e che è ora sfruttato come spazio pubblicitario per manifesti di grande formato. Alla fine, non solo è stata scorciata una strada importantissima ma intorno a essa non è stata costruita la città ottocentesca che ci si sarebbe aspettata. (È cambiata anche la sua denominazione nel corso del 2009, come ultimo sfregio).

Castello Piccolomini e Castello Orsini sono così diversi oggi, pur avendo avuto dopo il terremoto delle storie simili per alcuni lustri. Gli avezzanesi hanno aspettato oltre dieci anni rispetto ai celanesi – erano intervenuti negli anni Cinquanta –, per dare una sistemata a ciò che restava del rudere e delle macerie. Quando Castello Piccolomini ospitava la Mostra d’Arte Sacra, le mura del castello d’Avezzano racchiudevano il canile comunale; il primo è utilizzato come museo e contiene un ufficio della Soprintendenza Beap mentre il secondo è occupato saltuariamente per spettacoli e raccoglie una parte delle opere della pinacoteca. La prima ipotesi progettuale per il riuso, firmata da Alessandro Del Bufalo, è stata pubblicata negli anni Settanta (Bulzoni, 1977). È bene riconoscere che si trattava di una proposta meno invasiva e più ortodossa rispetto a ciò che ci si para oggi alla vista – aveva collaborato la Soprintendenza nella ricerca, d’altra parte. Come si arriva alla situazione attuale? Il progetto è stato tenuto a bagnomaria per una decina d’anni. Chi governava la città si accorse che la nuova maniera di guardare i film, avrebbe privato Avezzano dell’unico spazio dove tenere gli spettacoli teatrali: il Cinema Impero avrebbe imboccato la strada della multisala – come poi è avvenuto, ma solo nel 2001 –, mentre il cantiere del Teatro dei Marsi era rimasto fermo dagli anni Settanta. È sorta da qui l’idea di chiudere completamente e in quel modo l’area interna del castello; vi sono stati inoltre due successivi interventi per l’oscuramento della sala. Il Teatro dei Marsi è stato inaugurato nel 2006, mentre la sistemazione del castello risale al 1994; è facile immaginare che la gran parte degli spettacoli musicali ma soprattutto teatrali si tenga ormai nella nuova struttura dotata di torre di scena. Alcuni pezzi d’arte sono stati spostati altrove. La cittadinanza mostrò di gradire la nuova sistemazione; io sono sicuro che tra una decina d’anni tale sala sarà utilizzata giusto per dirottare gli spettacoli estivi all’aperto in caso di maltempo e per piazzare qualche concerto nell’affollato periodo natalizio. Non è perciò una bizzarria tale proposta: «si dovrebbe pensare ad un vero e proprio de-restauro per consentire almeno una corretta rilettura di quel che rimane, poiché non è più possibile capire la sua tipologia, la sua evoluzione storica» (C. Varagnoli). La struttura costruita per il riuso, se fosse stata autonoma – nel senso: staccata quindici, venti centimetri dalla cinta muraria e di là delle questioni legate alla torre dei Palearia –, oltre che «autoportante», avrebbe essa reagito meglio o peggio alle scosse sismiche degli ultimi anni?

Vi è un brano illuminante che ci mostra un effetto della ricostruzione nel lungo periodo in una vasta area, fino ai nostri giorni: «lo sviluppo urbano basato su un sistema assiale di comunicazione ha provocato in tempi moderni, soprattutto nei centri di pianura, gravi difficoltà di circolazione. In pratica, questi assi di comunicazione scelti come matrice di nuovo sviluppo, trattandosi quasi sempre di strade provinciali o statali di grande transito, oggi smaltiscono il grosso dei traffici della regione. Poiché impongono l’attraversamento obbligato dei centri abitati, creano enormi problemi di smaltimento del traffico e difficoltà per i residenti» (C. Cipriani).

È ormai assodato che in Italia manca una procedura, un protocollo unitario in caso di simili calamità; tali evenienze sono affrontate anche da governi generalmente diversi, nonostante la loro frequenza. È faticoso rintracciare una linea unitaria da parte delle istituzioni centrali in tal senso; manca inoltre una coscienza collettiva nelle menti delle popolazioni situate a ridosso dell’Appennino: che fare – soprattutto – prima, durante e dopo tali catastrofi naturali? (Vi è bisogno di tutto ciò, quando ci si trova a qualche decina di chilometri di distanza come nel nostro caso?). Meraviglia poco perciò leggere a proposito dell’Aquila, di: «inopinata gestione statale nella fase dell’emergenza, che – per l’inedito convergere di disparati interessi politici, comunicativi, tecnici, imprenditoriali e affaristici, abili nello sfruttare l’onda di emotività nazionale suscitata dall’evento – ha inferto ulteriori ferite al territorio» (A. Clementi). Si registrano numerose assonanze tra i due sismi, ne cito un paio. I primi soccorsi sono giunti prima ad Avezzano, all’Aquila e poi nei rispettivi hinterland. (La ricostruzione è avvenuta nello stesso ordine: prima nei centri maggiori e poi in quelli minori e nelle frazioni. È anche da ricordare che sono toccate le briciole dei fondi per la ricostruzione, ai piccoli agglomerati, com’è stato descritto da più di uno). La popolazione del neo-capoluogo marsicano raggiunse negli anni Venti la stessa consistenza che aveva prima dell’immane catastrofe: un segno evidente che era conveniente trasferirsi in maniera tanto massiccia; può dirsi all’incirca lo stesso per il capoluogo di regione: l’alto numero d’inchieste giudiziarie e di processi lascia intravedere che il post-terremoto sia stato un affare per più di uno. Nella raccolta si citano non a caso: «decisioni orientate alla demolizione e all’utilizzazione dei fondi per altri scopi». (C. Varagnoli). La vicenda marsicana dei «doppioni» avrebbe consigliato di non spostare gli abitanti dell’Aquilano sulla costa o le new town nel capoluogo, considerando i tempi lunghi della ricostruzione dovuti all’estensione del suo centro storico; tutto ciò sta portando all’abbandono dei centri e se ne avrà una prima cifra chiara con il prossimo censimento.

Il nostro passato si è ripetuto perciò in qualche modo all’Aquila dal 2009 perché questo, non è stato ricostruito, studiato, compreso – più che ricordato –, dalle generazioni successive sia marsicane, sia nell’Aquilano.

È stata anche denunciata nel volume la: «disarmante assenza di precauzioni dimostrata nei confronti del collasso di una città capoluogo regionale, che ha trascinato nella sua improvvisa crisi le stesse funzioni di governo della regione» (A. Clementi); tutto questo è avvenuto nel Ventunesimo secolo e paradossalmente, in una regione che conserva castelli, mura, torri, monasteri e fortificazioni di vario tipo.

I ventuno saggi raccolti costituiscono una miniera d’informazioni, di spunti per la riflessione a vantaggio di chi oggi voglia interessarsi alle vicende di questa parte dell’Abruzzo nel Novecento; tocca ora agli storici, intraprendere la proposizione di una storia che abbia al centro quegli avvenimenti. Tale raccolta mi è stata utile per dipanare intricati grovigli d’interessi e per illuminare numerose opacità presenti nell’azione delle istituzioni; vi sono elencate degli elementi talmente spuri, estranei difficilmente rilevabili da parte di chi si accinge alla scrittura della storia, anche le menti esperte. Io l’ho consultato sicuro di trovare uno spaccato dell’Italia meridionale d’allora, dei suoi usi e costumi dal tratto levantino, pressoché identica a quella odierna. (Aleggia nella zona uno strano sentimento per cui si è aperti in maniera acritica a ogni novità e ben disposti a distruggere accuratamente tutto ciò che risale a qualche decennio fa. Il rovescio della medaglia è la tendenza a costruire un’epopea degli anni della Riforma agraria, a evocare un passato mitico, quando: «si stava bene».). Nell’ultimo secolo paradossalmente più si è proposto di lavorare sulla memoria, sull’identità dei residenti più si è messo da parte elementi importanti della cultura materiale, della vita quotidiana da cui l’odierna difficoltà a superare perfino i disagi derivanti da una nevicata abbondante, una grandinata, il ghiaccio per strada; ci si è mobilitati in occasione degli altrui terremoti ma quando si è costruita la propria abitazione, si è generalmente lesinato sul ferro e sul cemento. Nella mia esposizione mi è premuto soprattutto denunciare, l’aver messo da parte molte pagine di pratica architettonica proprio nella terra che ha dato i natali a Bramante, Alberti, Borromini, Michelangelo nel nome di una presunta modernizzazione. (È stato più che altro il mio punto di vista). È apprezzabile la provenienza di una buona parte degli scritti dovuta oltre alle diverse ore trascorse negli archivi, anche ai molti chilometri macinati a piedi e alla capacità di saper vedere e interpretare ciò che s’incontrava durante le escursioni. I marsicani a fronte di questo spartiacque hanno oggi la possibilità di fabbricare un’altra narrazione sul terremoto del 1915; occorre un nuovo racconto ancora intriso dei più disparati elementi culturali ma finalmente liberato dalla sequela di eroi, leggende e superstizione.

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Lavoro come illustratore e grafico; ho scritto finora una quindicina di libri bizzarri riguardanti Avezzano (AQ). Il web è dal 2006, per me, una sorta di magazzino e di laboratorio per le mie pubblicazioni.