Secondino ragazzo di vita: ritratto dell’artista Silone da giovane

Redazione
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Ritratto dell’artista Silone da giovane
Secondino ragazzo di vita

Nel momento nel quale l’attuale presidente della Regione, Luciano D’Alfonso, si determinerà – e lo farà, ne siamo certi, irrimediabilmente spinto da quella particolare tendenza populistica [in senso russo ottocentesco] che lo anima – a creare un’onorificenza speciale per gli «abruzzesici» (categoria dal D’Alfonso medesimo recentemente creata, e consacrata in un conferimento di delega ad un assessore che ha ingenerato diverse perplessità) distintisi per le loro gesta e, soprattutto, per il loro sentimento avvertito e mostrato verso gli Abruzzi (che sono diversi, almeno tre [i tre Abruzzi dell’era moderna: Citra, Ulteriore primo e Ulteriore secondo / distinzione ideologicamente tenuta in non cale all’atto della creazione dell’ente Regione], e del tutto inconciliabili e non comunicanti tra di loro: cosicché è da temere che tali riconoscimenti verranno assegnati per provincia, come oggi i consiglieri regionali, per compartimenti stagni), ebbene, non nutriamo dubbi sul fatto che uno dei primi ad assicurarsi tale riconoscimento sarà Renzo Paris. Nella sua ultima opera (stavamo per scrivere, avventatamente, romanzo), intitolata «Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone» (Elliot Edizioni, pagg. 333, euro 19,50), costui, celanese settantenne, proseguendo in un suo lavoro invero abbastanza autoreferenziale, ha messo in scena, a modo proprio, i primi trent’anni di vita di Secondino Tranquilli, – in pratica arrestandosi al momento nel quale il nostro illustre concittadino è divenuto uno scrittore affermato ed esule ovvero il Silone delle antologie – con una tecnica del pastiche, combinando proprie elucubrazioni, documenti, parti di romanzi e parecchi altri ingredienti.
Tra questi ultimi elementi obliqui, di qui il discorso con il quale abbiamo esordito in queste poche righe, emerge acre la teorizzazione della fortezza e (in)temperanza marsicana, l’idealizzazione della quale è talmente presente nello scritto da renderci difficile l’operazione di accostare le suggestioni dell’autore ai surrealisti tanto amati e citati dallo stesso: più propriamente, potremmo ricondurle nel solco di una scrittura sempre francese e novecentesca ma sciovinistica e reazionaria; con l’aggiunta che se l’esaltarsi per la Francia potrebbe trovare forse giustificazione, accendersi allo stesso modo per la Marsica pare una decisa bizzarria, per quanto magica e millenaria la si voglia far passare e ammantare, tale zona, e con tutta la comprensione della quale, in quanto nati nella stessa regione, si sia dotati.
La recente uscita di questo testo su Secondino Tranquilli ha prodotto, in ambiti romani, una serie di contumelie che hanno investito l’autore prima che il silenzio scendesse lesto sull’operazione, come i tramonti in questo periodo sulla chiostra di monti intorno al Fucino. Nella Marsica, in quella contrada della quale egli, Paris, descrive «l’atmosfera di evocazione sciamanica di una etnia intera», l’indistruttibilità, ecc. ecc., di tale testo non si sono accorti, in parte proprio per ignavia, in parte perché i suoi e nostri conterranei hanno preferito glissare sull’operazione piuttosto che mettersi a vagliarla, nelle sue numerosi porzioni discutibili e, soprattutto, in quel del quale pure si potrebbe far tesoro. C’è dell’ingratitudine in tutto ciò, se solo si riflette che nel Fenicottero si arriva ad usare, appena traslitterati in italiano, termini dialettali incomprensibili a chiunque sia nato ad oltre trenta chilometri dal rione Campitelli – in una sola pagina: mantili; sapeva di ‘rivacci’ -. Senonché, in piena linea con l’andazzo marso (che a noi appare molto meno esaltante di quanto il Paris pretenda), nei giorni di uscita del libro, Paris è andato a Celano a ritirare – per un altro testo – il premio letterario dedicato alla memoria di Vittoriano Esposito, quell’Esposito esegeta siloniano che per molti anni ha tenuto prigioniero il dibattito su Silone in ambiti per noi (opinione personale) troppo angusti, se non strapaesanamente claustrofobici. Cosa c’è di strano? Che nel Fenicottero si afferma chiaramente che lo stesso Esposito, in vita, avrebbe scientemente taciuto quanto pure venuto a sua conoscenza (per mezzo di una fonte che sarebbe difficile catalogare di acqua cristallina, e qui citata peraltro de relato, Panfilo Giorgi) «la collaborazione con Guido Bellone, commissario di polizia» ovvero su quell’aspetto totalizzante della biografia siloniana che ha acceso gli ultimi venti anni delle cronache e suscitato, nel contempo, la più sovrana indifferenza dei passatisti (tra i quali l’Esposito). Maggiore attentato ed offesa alla dignità di uno studioso – l’accusa di esser capaci di arrivare a tacere quel che si sa e prendere posizione per l’opposto – noi non sapremmo immaginare. A Celano il premio Esposito lo hanno dato a Renzo Paris! Questo tanto per dire che non solo a Fontamara ci si fa del male da soli! [Flagellazione peraltro a doppio senso, giacché lo stesso Paris, per evidenti ragioni di opportunità, ben avrebbe dovuto restarsene a casa, in quel frangente. E’ come se, nelle debite proporzioni, si conferisse a questo povero foglio il premio Vincenzo Berardino Angeloni (potrebbero farlo in futuro, dopo l’intitolazione di piazza Risorgimento a quel prefetto Letta è evidente che anche in quel posto è possibile qualsiasi cosa): sarebbe ben strana cosa ciò si verificasse, suonerebbe ancor più bizzarra la nostra salita ad Aielli a ritirare la prestigiosa sòla d’oro…].
Ma cos’è questo libro? L’autore, con espediente che ricorda troppo da vicino le clausole liberatorie di certe trasmissioni televisive di bassa lega, nonostante il titolo e i contenuti dell’opera, in tutto e per tutto riferiti a Silone, scrive, nelle note editoriali, che «i personaggi di questo romanzo, sia pure tratti dalla realtà, vivono nel regno della pura finzione». Subito prima però precisa che «i testi di Ignazio Silone citati in questo libro sono tratti da Silone. Romanzi e saggi in due volumi, I Meridiani Mondadori, Milano 1988-1989». Come si può vedere, le nevrosi che Paris indovina in Secondino, in parte parrebbe riprodurle anch’egli. Di aspetti clinici d’altronde, anche riferiti alla sua persona, e all’oggetto totalizzante dello scritto, il Silone da giovane, Paris non fa mistero, e in diversi passaggi è evidente l’identificazione-sovrapposizione tra le cure psicanalitiche junghiane del Tranquilli in cerca dell’uscita di sicurezza con le proprie.
Uno degli elementi che connota il testo è l’ossessione: dei personaggi descritti e romanzati certo, ma soprattutto quella di Paris verso Silone. Notevole, nel libro, il resoconto di un progettato incontro che tra i due, nella Roma di Tempo Presente, alla fine, fisicamente (e culturalmente) non avvenne; forse ricordiamo male ma quindici anni or sono lo stesso Paris, a Pescina, ebbe a fornire pubblicamente una versione affatto differente della cosa, e ci narrò di un incontro tra egli, giovane virgulto della letteratura appassionato di Moravia e Pasolini con il totem Silone; all’epoca Paris ci disse che l’incontro effettivamente avvenne, e che fattosi coraggio a dichiarare l’intenzione di presentare un testo all’attenzione del maestro, lo stesso lo abbia liquidato con l’icastica battuta (rigorosamente in dialetto): «Adesso anche quelli di Celano si sono messi a scrivere!». Esperienza dalla quale forse ha tratto anche la felice osservazione formulata nel libro sulla circostanza che «non c’è marsicano che non sia velenoso nel suo interloquire, ironico, feroce». Ma nel regno della pura finzione, questa discrasia sull’incontro non sarà neppure la più grave….
Nell’anticipare che a nostro penosissimo e irrilevante giudizio, il testo del Paris non sia felice e riuscito, pure ci preme sottolineare, nell’ottica dell’ossessione, alcuni punti meritevoli di essere brevemente trattati. Delle missive spedite al commissario Bellone dal Tranquilli, quelle cioè disvelate ed attribuite a Silone dai professori Canali e Biocca e poste a fondamento di tutto il solido edificio della querelle della collaborazione con la polizia nel corso degli anni Venti, Paris scrive: «quei documenti trasmettono una energia e una forza che mi introducono in uno stato di fibrillazione continua». Agli Esposito e agli innocentisti a prescindere, dobbiamo dirlo, su questo aspetto preferiamo senz’altro Renzo Paris: come in punta di penna abbiamo osato rilevare negli anni scorsi (in ultimo nel 2013) su un documento autografo del 1923 al quale si accennerà anche più avanti:

[…] Come poi, studiosi che pretendevano, come pretendono, di essere degli “esperti” di Silone, degli studiosi dei suoi scritti, abbiano potuto non rinvenire, in quel chilometrico scritto, non solo la calligrafia del Nostro – onestamente: i-n-c-o-n-f-o-n-d-i-b-i-l-e – ma il tono, il timbro, il ritmo siloniano, resta per chi qui scrive, un mistero gaudioso, se non una prova della malafede che talvolta ha albergato in taluni. Senza essere dei profondi studiosi di letteratura o dei criminologi o dei semiologi, basterebbe compulsare la chilometrica relazione e confrontarla con alcuni vezzi di normalizzazione del testo tipicamente siloniani, per propendere per la sua autenticità e genuinità, anche a voler ignorare il contesto nel quale la produzione di tale documento si inserisce, e che costituisce, in un ambito sempre piuttosto labile quale la Storia, una delle più solide ricostruzioni mai lette. Basti accennare all’uso di quella particolare forma di interpunzione-inciso nel discorso rappresentata dalla parentesi con il punto finale racchiuso all’interno della parentesi stessa, un vero marchio di fabbrica siloniano, presente nel 1923 come nel 1968 […]

vivaddio, qualcuno la pensa come noi. Dobbiamo preoccuparci della compagnia?
Anche sull’architrave sul quale poggia l’intero universo letterario siloniano, la dicotomia ontologicamente inconciliabile città-campagna (non era ancora venuto il tempo dei villini in mezzo al nulla), Paris ci pare molto più sintonizzato rispetto a tanti critici di Silone. Velenoso ma non così fuori dalla realtà persino quando, con un timore reverenziale del tutto ingiustificato, si muove da Celano a Pescina, aspettandosi chissà cosa e riscontrando invece, nel nostro Centro studi, un che di bulgaro (pensava forse di rinvenire un utilizzo del “brand” Silone simile a quella che a Lucca si fa con Puccini; qui è l’esatto contrario).
Con tutto ciò, il libro non ci piace. Il metodo innanzitutto: se la propalazione di un Silone ridotto a “santino”, infallibile, senza macchia e senza paura ci ha, nel tempo, disgustati al punto da averci allontanati dalla stessa opera di Silone, pure vi è da dire che miscelare realtà e letteratura e interpolare quel che i documenti non attestano (diciamo meglio: magari attestano ma non sono ancora usciti, o sono a conoscenza e nella disponibilità di pochi) impastando e ricostruendo una vicenda alla fine della quale non si è più in grado di separare il grano dal loglio, discernere vero falso e verosimile, è operazione che allo stato attuale aumenta la confusione e sa parecchio di protagonismo: è, al contempo, divisiva ed elusiva. Siamo sì in presenza di un romanzo, con delle trovate asincrone e decontestualizzanti persino spiazzanti (la rivoluzione russa che pare posta sullo sfondo del 1915, l’approdo di Silone alla romana abitazione di via di Villa Ricotti che pare localizzato in epoca precedente a quella effettiva, ecc…) ma il risultato complessivo non è di facile metabolizzazione. Non lo è non tanto (non solo) per alcune cadute francamente incredibili – a solo titolo di esempio: in una lettera, vera, destinata a Romolo Tranquilli in carcere, inverno 1928, a Secondino si fa scrivere nientemeno che di un «pacco di soldi» [danari che peraltro sarebbero stati immediatamente sequestrati dalle autorità fasciste, costituendo un evidente soccorso rosso] inviato al disperato fratello da Parigi piuttosto che, come era, di un involto di modestissimi generi di sollievo: la differenza è abissale, l’effetto quasi pornografico, sia se voluto sia se, come nel caso, effetto di una sfortunata copiatura – ma per la sesquipedale riproposizione di stereotipi che forse sarebbe il momento di abbandonare: il voler trarre, dalle opere letterarie di Silone, dei dati esatti sulla storia della contrada è una operazione ormai consunta, e che conduce a dei fraintendimenti imbarazzanti. Senza impiegare tempo sulla figura del medico dei poveri (che però non era un povero medico, ed era anche torloniano) ovvero quel Mariano Scellingo al quale Secondino non può aver fatto campagna elettorale per il semplice fatto che al momento delle sue due vittorie nel collegio di Pescina il nostro Silone aveva quattro e nove anni), le ricostruzioni sul terremoto e sul trasferimento della diocesi peccano realmente di una consistenza storica ormai indispensabile ove si voglia ancora tornare su tali gravosi temi senza incorrere nelle vuota chiacchiera del frusto convegno rituale e con qualche prospettiva di profitto culturale. Non che si debba arrivare a sublimare il romanzo storico ma che almeno non se ne costruisca uno leggendario e cazzaro.
Quel che veramente colpisce è l’autodafé al quale il protagonista del testo, Secondino Tranquilli, viene sottoposto dall’autore, in un perverso rapporto di amore-odio. Come detto, noi abbiamo sempre diffidato del “santino” – di quella agiografa acritica che inevitabilmente produce, alla fine, il suo contrario – ma prima di transitare sul versante opposto occorrerebbe ancorarsi a dei presìdi documentali più solidi. Leggere per credere: il giovane Secondino, già irrequieto a Pescina, una volta a Roma diviene quantomeno contiguo all’ambiente della prostituzione minorile, ruba l’elemosina, contrae una «amicizia amorosa» (il copyright qui è attribuito a Dario Biocca) con un funzionario di polizia con il quale in seguito si abbraccia in una stanza d’albergo a Ventimiglia (anno 1923: il frangente della lunga lettera delatoria trovata da Mauro Canali e pubblicata in un opuscolo ormai introvabile; lettera alla quale sopra si accennava), quel Bellone che lo fa poi liberare in Spagna, e che in tale amicizia persevera anche più tardi. Anormale politico ma prima ancora sessuale, simulatore decennale con i compagni di partito (simulazione: il tema centrale della biografia siloniana spalancato dalla collaborazione con la polizia – che nessuno osa toccare), afflitto da nevrosi prossime se non sfocianti nello schizofrenia, Silone diviene amante della moglie del suo editore svizzero ma, al contempo, è impotente. Probabilmente bigamo, nel contrarre matrimonio con la Elisabeth Darina Laracy, al ritorno in Italia (matrimonio anche questo rato ma non consumato, va da sé). E così via. Troppo. Con sullo sfondo dell’altro che pare essergli stato prospettato, al Paris, dai numerosi consulenti utilizzati per la collazione di questo testo (consulenti che si spera conoscessero in anticipo dove sarebbe andato a parare l’autore – o che oggi ne abbiano prese le distanze). Un altro che si ci può figurare…. indicibile…. terribile al punto da esser taciuto dallo stesso Paris, persino nel regno della pura finzione….
fmb

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