Scandalo Facebook: gli consegniamo “Oro” e ci regala specchietti

Lapo Kalisse
Lapo Kalisse
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La notizia tecnologica del giorno è il crollo in borsa di Facebook (-7% al momento della pubblicazione). Tutto si è innescato con l’accusa rivolta a Cambridge Analytica – una società che raccoglie e analizza “big data” – di essersi “indebitamente appropriata” dei dati di 50 milioni di profili (più che averli “rubati”) per utilizzarli a fini elettorali: pare che fra i suoi clienti ci sia anche Trump, oltre a un non meglio precisato partito italiano, forse il più vecchio attualmente in circolazione.

Il meccanismo con cui la succitata azienda di analisi è accusata di operare è molto semplice: cerca di capire quali siano le preoccupazioni delle persone appartenenti ad un gruppo preso come campione per suggerire programmi elettorali ad hoc indicando come alimentare il fuoco delle paure con notizie false che risuonano come un tam-tam del villaggio globale.

Sia l’elezione di Trump che la Brexit, a quanto pare collegate in qualche modo alla società, sono al vaglio degli inquirenti che cercano di capire quanto ci sia di reale in uno scenario che sembra uscito da un thriller politico (neanche troppo originale).

Il fenomeno è legato a doppio filo col problema delle fake news, una “piaga” che lo stesso Zuckerberg (fondatore e amministratore di FB) si era affrettato a minimizzare e promettere di curare.

Quale sia lo sviluppo della vicenda potete leggerlo sulle principali testate nazionali e non, quello che qui interessa analizzare è il fenomeno dei dati personali venduti in modo più o meno legale.

Non è detto che il crollo in borsa possa intaccare la base di utenza che quotidianamente utilizza il social network per frequentare amicizie virtuali.

Per capire il senso di tale affermazione, basta guardare il grado di dipendenza di alcune persone che – mentre hanno gli occhi incollati sul telefono per leggere i post – sono assolutamente scollegate dalla realtà che le circonda. L’uso tipico di questi strumenti porta a cercare conferme alle proprie opinioni (con relativo appagamento intellettuale) più che a sottoporle al giudizio degli altri per verificarne la validità o la fondatezza. L’appartenenza ad un gruppo sociale e la ricerca del consenso vengono soddisfatte dal conteggio dei “like” (mi piace) o dai commenti più o meno compiacenti dei “follower” (iscritti).

Non si condanna un comportamento del genere ma ciò che preoccupa sono i risvolti pesantemente negativi su chi decide di rimanere fuori da un gioco di cui non approva le regole.

Spesso si dice che l’uso di Facebook non si paga ma – secondo la massima “se il servizio è gratis vuol dire che sei tu il servizio” – tale gratuità è solo apparente: nel 2017 la società ha fatturato 40 miliardi di dollari di cui 16 di profitto. Quindi come fa a guadagnare così tanto se gli utenti non pagano? Semplice: usando i dati personali (in modo più o meno esplicito) dei propri utenti per “vendere” questi ultimi agli inserzionisti pubblicitari che ottengono, così, informazioni su fette di popolazione allineate con il loro mercato di riferimento, mentre usa i contenuti generati dagli utenti stessi per alimentare il meccanismo.

Volendo fare un’analogia vengono in mente i nativi americani che davano agli europei il proprio oro in cambio di perline, specchietti e vetri colorati. Finite le perline arrivarono le coperte al vaiolo che sterminarono anche quelli che allo scambio si opponevano o non erano interessati.

Il paragone non è così azzardato come può sembrare di primo acchito: le sole ore spese alla tastiera dagli utenti hanno un costo lavorativo che i social non pagano, le foto ed i video pubblicati divengono di loro proprietà e, principalmente, le informazioni private dei singoli utenti e dei loro conoscenti vengono rastrellate, profilate e vendute. Tutto questo materiale viene pagato a caro prezzo dagli inserzionisti (e chissà chi altro) mentre gli utenti che lo hanno prodotto ricevono, al massimo, un grattino sulla pancia sotto forma di “like”, senza nessuna forma di ritorno economico per i contenuti generati. Anzi, bisogna pagare per farli diffondere mentre il fisco chiude un’occhio su elusioni miliardarie.

A breve – su SITe.it – una disamina degli scenari più o meno futuribili che una tale profilazione comporta.

 

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Lapo Kalisse è uno sciamano informatico e guaritore di gadget tecnologici. Dopo una lunga esperienza maturata come consulente ha acquisito la consapevolezza che l’informatica è lungi dall'essere una scienza esatta e, quindi, ha cominciato ad applicare metodologie animistiche all’IT.