Pescina: Masterplan e torre. Ne varrà la pena?

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
12 Minuti di lettura
Manifesto murale

Il rischio che si corre è quello – direbbero i colti – di risultare ultracrepidari, ovvero di andare a parlare di questioni fuori della nostra modesta portata, di andare oltre il seminato. Ma sul tema del progetto targato masterplan che sta per confusamente (ibridato sin dalla intestazione: «intervento di completamento recupero integrale casa natale di Ignazio Silone e itinerari parchi letterari») abbattersi sulle evidenze architettoniche e artistiche di Pescina, ora che il municipio è addivenuto a pubblicare il milionario bando, crediamo di dover dire ancora qualcosa, sull’abbrivio e nella direzione di quanto abbiamo tentato di affilare nell’ultimo numero, ad ulteriore e definitivo scarico di coscienza, per quel che può valere.

Un giornale, quando pure di scarsa importanza come quello che avete nelle mani (ché si stampa ancora il cartaceo; e non è poco), non dovrebbe limitarsi a registrare una notizia ma tentare di conferirgli un senso, inquadrandola nel contesto. Ancor più nelle contrade ove, per riprendere la battuta di un grande abruzzese, ad una grande conflittualità tra le persone si accompagna una singolare scarsità di conflitto sui temi politici, sulle questioni pubbliche (questioni pubbliche nelle quali non rientrano – ma trattasi di opinione risibile – la bollitura delle liste per le prossime amministrative, il cui calderone è già sulla catena del fuoco; e analoghe attività trascurabili di piccolo cabotaggio di banale vanità di singoli). Sotto tale profilo, il tema di questa eterogenea galassia di interventi previsti dal masterplan sui luoghi dell’antica Pescina rivela molto dello stato del nostro dibattito collettivo; e crediamo quindi utile indugiare pochi attimi sulla questione della formazione della volontà e della comunicazione istituzionali, per tentare di contribuire a dare un senso ai rumori dell’attualità, che tutto ingoiano in una voracità indistinta e ottusamente tifosa (fatta salva la legge sociologica che lega la bassa diversificazione sociale e di opinioni alla bassa densità demografica; legge che solo in parte giustifica quel che da noi accade).

Dei contenuti di questo progetto del parco letterario si è avuta in pratica effettiva contezza solo all’atto della sua approvazione, quando invece sarebbe stato molto utile non solo celebrarli ora, con affissioni a metratura, ma anche condividerli e discuterli prima, in corso di istruttoria. Questa è una deficienza – etimo latino: deficere ovvero mancare – che è propria del nostro vivere civile. Su temi di questo spessore sarebbe auspicabile ci fosse una maggiore conoscenza/diffusione di quel che si vorrebbe e si andrà a chiudere, se non altro per sollecitare qualche energia e le intelligenze punte sul vivo e attente ai temi (di quelle alle quali, in quel famoso avviso murale sulla torre del 1956, il sindaco Pompeo si indirizzava). Sembra invece che questa partecipazione (si dirà: ma la cittadinanza non parrebbe avere tutta questa voglia di interessarsi!) sia un optional, e non un dovere che le istituzioni a tutti i livelli dovrebbero perseguire.

L’atteggiamento è quello del comitato feste: quest’anno tocca a noi, chiamiamo questo cantante, punto e basta. La differenza consiste nel fatto che la festa finisce lì, dopo il concerto e gli spari, mentre un rifacimento e degli interventi restano a lungo, e possono determinare la fortuna e la sopravvivenza dei luoghi, ipotecandone destini e indirizzi. Qui ci troviamo in presenza – direbbero sempre i colti – di una scarsa capacità di sviluppare capitale relazionale extralocale, e persino di valorizzare quello locale. La giustezza di un percorso non si misura evidentemente contando like su facebook, che è il luogo virtuale meno indicato per diffondere e popolarizzare contenuti e idee di certi interventi; né con il social network può ritenersi assolto il compito di informare.

Ora ci ritroviamo – dopo che delle entità si sono meritoriamente prodigate in linea politica a farci inserire nel masterplan – un progetto chietino che prevede camminamenti e passaggi sul nostro centro antico ma non abbiamo ben compreso (e potrebbe essere un limite nostro) cosa si andrà a scrivere in quella cartellonistica che si prevede di realizzare, da piazza Mazzarino sino a sopra la torre, in cosa consisteranno i luoghi da mostrare nel percorso. La nostra elaborazione collettiva, al riguardo, crediamo sia stata molto semplice: a) ci sono i soldi; b) ora qualcuno ci dà un progetto; c) noi armati di soldi e progetto mettiamo tutto a gara, poi si fanno i lavori e tra qualche anno: d) ci dorremo che tutto risulti abbandonato: film già visto (visto almeno quanto ‘Totò Peppino e la… malefemmina’: ma meno divertente).

Invero, ci sono degli aspetti positivi, ed primo concerne il simbolo di Pescina, la torre, che per essere resa calpestabile e fruibile (ma sarà mai necessario?) dovrà essere messa in completa sicurezza. Ma il pensiero complessivo del progetto, di cosa si voglia fare di tutta un’area, ci sfugge grandemente. Anche qui, saremo carenti noi (e se qualcuno si fosse dato la briga di spiegarcelo, anche per sommi capi, oggi non staremmo qui ad imbrattare fogli con l’inchiostro). A questo riguardo, abbiamo chiesto all’ufficio competente, alla Soprintendenza di Chieti, il parere archeologico fornito al riguardo, e tutti i dati in possesso e i rilievi effettuati per decidere che un simile intervento, su un’area molto delicata, fosse da approvare, in questa data forma: speriamo di avere una risposta. E fidiamo naturalmente che questo parere non consista solo del seguente passaggio espresso in una lettera indirizzata dalla Soprintendenza al municipio di Pescina (e, sollecitamente, per conoscenza, al progettista):

[…] considerato che l’intervento prevede, in sintesi, l’installazione di totem ed elementi informativi lungo il percorso; di corpi illuminanti all’interno della casa natale di Ignazio Silone (il cui intervento di restauro è in corso) e la riqualificazione dell’area esterna alla casa; la messa in sicurezza dei tratti di sentiero dalla Torre di San Berardo al Castello Piccolomini e la valorizzazione dei ruderi del castello con una creazione di una passerella oltre la sistemazione interna; il consolidamento e restauro del castello; il ripristino funzionale dell’impianto elettrico interno alla Torre ed esterno alle strutture esistenti del Castello; tutte opere che, nella loro progettualità, si ritengono compatibili con i criteri di tutela degli edifici ed i luoghi interessati dal progetto […]

giacché non possiamo astenerci dal riflettere che nel progetto per il bacino tra Pescina e San Benedetto si possono rinvenire, per una porzione di territorio uniforme e di piccola estensione, gli elaborati di oltre cinquanta saggi archeologici. Cinquantaquattro, per la precisione. Risulterebbe un controsenso incredibile, non si fosse indagato cosa ci sia sotto quei sentieri dell’antico sito di Pescina di cui la Soprintendenza di Chieti parla (inciso: c’era una città, non dei sentieri: i sentieri stanno alle faggete di Lecce; e se oggi, entro la città dei nostri bisnonni, appare un sentiero, abbiamo un problema, quantomeno di empatia e di comprensione storica: e non si ripristina il sentiero, perché non era di certo un sentiero quello che conduceva da San Berardo al Castello).

In effetti, se l’entusiasmo del sindaco Iulianella e di qualche altra figura dell’amministrazione potremmo anche comprenderlo (ma non giustificarlo), e ascriverlo al ‘morbo di fare’, e alla necessità di dover dire di avere fatto (a volte, a prescindere dalla qualità del cosa), siamo rimasti sorpresi dal contegno assunto e tenuto dagli uffici che dovrebbero tutelare il patrimonio storico (tutelare ancor prima di ‘valorizzarlo’; espressione quest’ultima che sarebbe da bandire dal gergo ministeriale) e da chi, in teoria, dovrebbe, sul tema, con la conoscenza, supportare l’azione illuminata per il perseguimento di una visione complessiva del territorio, in considerazione di quelle che essi stessi definiscono «cause permanenti d’ambiente».

Ci eravamo illusi che una certa scuola di professionisti e di tecnici della Costa abruzzese – che per comodità appelleremo Varagnoli C.-Pezzi A.G., dal nome di due suoi illustri rappresentanti – avesse, per l’appunto, fatto scuola, da noi, operandoci, con: «la tutela delle preesistenze»; i «riferimenti teorici sul restauro e la valorizzazione di prassi operativa»; (nientemeno!) «il procedimento cronologico con il quale ogni monumento deve essere studiato»; l’avversione manifesta e manifestata, in luoghi di memorie povere quando non infinitesime, verso le «invasive campagne di ripristino» e le superfetazioni fisiche e concettuali (cos’è una sorta di terrazza sulla cima della torre?); l’idiosincrasia verso l’utilizzo di materiale moderno (ivi compreso il terribile acciaio corten). Ma in questo caso pescinese, fermo rimanendo che non è l’arte nostra (quasi nessuna lo è), qualcosa deve essere andato storto, per un altro verso. O noi abbiamo compreso ed interpretato male.

A costo di apparire noiosi: la questione di cosa fare dell’antico sito del centro storico di Pescina necessita di una grande elaborazione. Questo intervento del masterplan marcia nella direzione opposta, nel senso che la sua realizzazione eliminerà ogni residua esigenza e desiderio di applicarcisi, al sito, con lo studio e la pianificazione necessari. Per questa attività di pensiero dedicato all’antica Pescina – ci siamo anche permessi di scriverlo, al primo cittadino pro-tempore del paese (vi facciamo vènia del chilometrico testo), impetrando di farsi e di farci aiutare – occorrono dei professionisti, che ci aiutino a costruire un percorso di Storia e Memoria senza il quale non basteranno cinquanta masterplan a conferire un senso al nostro Passato. Ma potrebbe bastarne uno per compromettere quel poco che vi è da salvare. Che ciò generi e ingeneri tripudio o indifferenza, poco cambia.

«L’attenzione agli stracci della storia è per me, come per Benjamin, un principio di metodo. Non bisogna dimenticare che ciò che è veramente importante si presenta spesso nel mondo attuale in forme marginali, malfamate e perfino ridicole. Simone Weil ha scritto una volta che solo uomini caduti nello stato estremo di degradazione sociale possono dire la verità. Credo che questo sia vero anche per le testimonianze storiche che devono interessarci: sono come relitti che rischiano continuamente di andare perduti, ma proprio questo rischio costituisce la forza incomparabile della loro testimonianza» (Giorgio Agamben, 28 ottobre 2018)

TRATTO DA: il martello del fucino 2018-11 – SCARICA QUI il Pdf

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