PESCINA, 2018 – Fuori dal mesozoico

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
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Il concetto del «Noi», in queste lembo di Appennino declinante, risulta piuttosto compromesso dal preponderante ego dei singoli; nondimeno (o, forse, proprio per questo), nelle rare occasioni di rilievo pubblico nel quale il concetto di collettività viene evocato (di norma, strumentalmente; in vista di una subornazione argomentativa utile a produrre beneficio alla ca[u]sa personalissima di alcuni singoli) lo si fa sostenendo non solo che noi si sia più corretti moralmente superiori e degni di rispetto degli altri – meccanismo che vale e funziona in tutto il mondo; e azionato con tanta maggior forza quanto più simili assunti risultano lontani dal vero (simile) – ma persino rivendicando quelli che a tutti gli effetti sono dei difetti, se non addirittura delle patologie e delle afflizioni mediche (certe elucubrazioni entusiastiche sull’ipertiroidismo e sulla colesterolemia marciano decisamente in tale bizzarra direzione).

Non c’è dunque da stupirsi, in una simile temperie, nel contesto dato, che il dibattito pubblico, la visione del Futuro del Territorio (inteso quale comunità di esseri umani, e non dei soli arbusti e dei tuberi), l’analisi delle prospettive a medio e lungo termine, soffrano di rachitismo, non si sviluppino per come sarebbe necessario. L’accettazione dello stato delle cose e il cimento con i problemi quotidiani rappresentano la sola cifra stilistica di questi tempi di tribolo, alla quale si accompagna un sordo crescendo di rancore sociale, di rimpianti per il bel tempo andato (che forse così bello non è mai veramente stato), di ricorso alle illusioni e alle recriminazioni (oppiaceo che quasi tutti i sensi civici ottunde).

La piazza, reale e virtuale, ne esce totalmente devastata, la discussione sui temi pubblici si inviluppa e si deteriora, sino ad assumere delle connotazioni di guerre personali destinate, con il cessare dalle cariche dei singoli (o il passare ad altri hobby da parte dei contestatori), a lasciare un campo devastato, vuoto di idee, privo di un senso. Un terreno dal quale fuggire, per chi è in grado e si trova nella condizione di poterlo fare.

Costituisce forse un primo livello di presa di coscienza quello che ci porta a dolerci di aver perso – si parla qui di Pescina ma il discorso è facilmente estendibile a moltissimi centri abruzzesi e appenninici – la sede vescovile, il San Nicola Ferrato (l’ospizio degli orfani), gran parte delle torri del castello, il feudatario, il canonico Colantoni, Mazzarino e il padre di costui, Silone, la tenenza dei carabinieri, l’ufficio del registro, la comunità montana, l’entusiasmo, la giovinezza, la zecchinetta da Fracassi, le cantine con la frasca. Ma tale ecolalìa, da sola, non conduce lontani; innanzitutto perché anche il ricordo è elaborazione, e senza quelle che qualcuno ha definito «operazioni culturali di tutela o trasmissione di forme memoriali» (Stefano Ventura) il passato, lungi dal rinverarsi e dall’insufflarci un alito vivificatore, rischia di assumere vesti e contorni irreali se non apertamente parodistici (quali quelli magistralmente dipinti dall’amico Giuseppe Pantaleo, con il pennino e con le parole); e perché, la semplice recriminazione sentimentale – buona a farci ricordare i nostri bisnonni e i loro racconti innanzi al fuoco e persino a farci emozionare – non agglutina consapevolezza della situazione nella quale oggi – volenti o nolenti – si versa; e crediamo che tale trasporto sentimentale non sia punto funzionale a convincerci della necessità, inderogabile, di elaborare una strategia pubblica, comunitaria, che ci consenta di resistere.

Resistere: quanto più si può, nelle migliori condizioni, quanto più dignitosamente possibile. Un dovere.

Assistere al triste spettacolo di meschine zuffe da cortile; rendersi conto che vi è ancora chi non riesce ad assimilare il concetto che per fruire di un bene pubblico occorre detenere un titolo, versare i canoni (modesti) e pagare le utenze (che, se corrisposte da chi utilizza effettivamente i servizi, saranno più basse rispetto a quando ad accollarsi la bolletta è, impropriamente, il municipio); notare come taluni – che si pretendono nuovi – concepiscono il consiglio comunale come un luogo dove interloquire liberamente, e dare sulla voce a chi si è messo in lista (e sulla bocca delle persone) per farcisi eleggere, e sedere in quel consesso e – lui sì – esprimere opinioni e voti: tutto ciò testimonia che forse non abbiamo bene metabolizzato la situazione nella quale ci troviamo, impantanati.

Come e ancor più che per la situazione nazionale (perché questa è una sindrome della politica italiana), se qualcuno pensa che cambiando X con Y possano risollevarsi le nostre sorti complessive, questo qualcuno è un illuso. Dalla profonda frustrazione pubblica odierna, che è comune a tutti gli Appennini, se ne esce solo con nuovi progetti, approcci diversi. Abbandonando gli schemi amministrativi dell’Ottocento (le circoscrizioni amministrative sono quelle in ultimo ritoccate dai francesi, due secoli fa) e le idee produttiviste ed il concetto di sviluppo proprio degli anni Cinquanta del secolo scorso (grosso modo, siamo fermi, con il concetto collettivo, a quell’epoca). Facile a dirsi, difficile a farsi.

Di questi giorni è la notizia, quasi incredibile, che Agordo, ridente cittadina veneta che è il cuore della multinazionale Luxottica, cittadina che conta gli stessi abitanti di Pescina (quattromila) e con la stessa età media (47 anni) ma un reddito pro-capite infinitamente più alto, e la piena occupazione, e la vista delle Dolomiti, ed un welfare che arriva sino alla fabbrica (consegna a domicilio dei libri di scuola gratuiti per i figli dei dipendenti del colosso), si sta spopolando, agli stessi nostri ritmi. Non crediamo occorrano ulteriori riflessioni. Certo: non se ne esce, noi, che siamo anni luce distanti da Agordo, con le liste alle amministrative dove Pasquale vota il compare di Antonio contro l’amico di Luigi, le fasce tricolori accampate ai caselli per chiedere l’elemosina dello sconto all’Impresario, il raccontarci che siamo forti e gentili, le sagre degli arrosticini, ecc..

Le ultime annate di questo povero foglio sono state tutte consacrate a sproloquiare – quasi da soli – sulle bare volanti (le nostre strutture: vecchie, inservibili, infungibili, pericolose), sull’assenza di veri servizi sul Territorio (inteso non come arbusti ma come insieme di persone) e, soprattutto, sulla mancanza di qualsiasi visione strategica per la nostra area. Nessun paese infatti si salva da solo, a patto di non volere che i centri divengano dei piccoli presepi [opzione pure possibile, ove la si ritenga valida: ce lo ha mostrato un recente programma televisivo, Ghost Town, andando a filmare un centro del Far west sottoposto, dalle Autorità americane, ad un regime di fatiscenza controllata / in pratica, viene mantenuto nello stato decadente conseguente al suo completo abbandono, ottant’anni fa, manutenendo solo le strutture essenziali]. Presepi abbandonati, circondati da cave e rifiuti e non dal deserto, questo va da sé; se non dal nulla.

Abbiamo coniato il termine «speronizzazione», per indicare quel processo di progressiva desertificazione delle fonti di vita del tessuto sociale, e quasi tutti coloro che si sono posti la questione hanno consentito che esattamente questa è la sindrome che ci affligge. Ma passi in avanti, reazione, non se ne sono visti. Piuttosto, nel Fucino, si è registrata la tendenza contraria a quella che ci si aspetterebbe: invece di ragionare insieme, di unire le forze, quel che è rimasto degli apparati politico-amministrativi si è gettato a santa nega, ignorando ostentatamente i problemi e continuando nel birignao dell’amministrazione finto-efficiente, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti (non si insisterà oltre, se non per rimarcare la follia delle mille scuole insicure aperte – sino a quella che conta ben quattro bambini e quattro operatori). Una vera e propria rimozione delle problematiche, spintasi sin quasi alla rimozione degli stessi – pochi – avveduti soggetti che hanno osato parlarne (tra questi, osteggiatissimo sino al parossismo più autolesionistico, il noto Maurizio Di Nicola).

Abbiamo più volte trattato di fusioni tra municipi, meccanismo con il quale si potrebbe recuperare almeno un minimo di visione complessiva. Niente. Neppure a pensarci. Evidentemente quelle trentuno comunità che in Italia, nel 2017 si sono astrette in tredici municipi, e quei trentasei comuni che in questo momento, per il 2018, si stanno riducendo a sedici, costituiscono soltanto degli assembramenti di umani avidi di danaro (gli incentivi che lo Stato eroga per queste fusioni) ma che non hanno storia. Noi invece la storia la teniamo (come no), ed i soldi e le agevolazioni non ci interessano. D’altronde noi abbiamo già tutto, mica siamo, che so, Montalcino (che lo ha fatto).

Come quando una scadenza ci impone l’azione, pure avevamo avuto la speranza che la serie di terremoti registratisi negli ultimi dieci anni in luoghi a noi contigui potesse rappresentare, paradossalmente, un’opportunità, ovvero spingerci ad una serie di riflessioni e di azioni che senza la minaccia imminente di un disastro (che questo sarebbe da noi quel che si è registrato lì: ed è triste doverlo rammentare in un giornale che esce il tredici di gennaio) avremmo rimandato sine die. Peggio che andar di notte. Abbiamo sincero timore a chiedere, in municipio, nei municipi, cosa sia stato fatto per recepire le indicazioni emerse dalla microzonazione sismica di primo livello – quella della quale tratta, per Pescara, nell’altro articolo, Augusto De Sanctis – che la Regione ha provvidamente regalato a tutti gli enti comunali abruzzesi.

L’altr’anno prendemmo come simbolica la circostanza che alle feste di agosto la statua di san Luigi Gonzaga, portata fuori dalla chiesa, fosse rimasta mestamente in quel luogo, non essendoci nessuno per portarla in processione, sino al rientro del corteo religioso. Se quel restare del santo con i tecnici del suono intenti a montare il palco è stato analizzato nel suo significato simbolico (ed in parte lo è stato, sino a spingere gente notoriamente laica ad incollarsi quella statua, pochi mesi fa), forse non lo è stato in tutte le sue implicazioni, di specchio, di proiezione. Ma il santo da incollarsi, per salvarci, è assai più gravoso.


Tratto da: Il Martello del Fucino 2018-1 [ SCARICA IL PDF ]

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