Il ponte di Pescina quale costruzione situazionista. Essere e divenire della gente di piazza

Franco Massimo Botticchio
Franco Massimo Botticchio
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Assai si discute, in questo ultimo torno di tempo, nel mondo civilizzato, sulle ricadute che l’uso dei moderni mezzi tecnologici di comunicazione (e di condivisione) di massa ha comportato nelle nostre vite. Chi ne sa molto più di chi scrive (non è difficile versare in tale condizione) ha parlato, non senza ragioni, del nuovo regime nel quale viviamo ed operiamo – astretti come siamo dal ricorso ai social network e dipendenti dai più svariati device (il forno elettrico, la slow cooker; ma, soprattutto: telefonino, ipad, ecc.) –, ribattezzandolo con un’espressione che suona ben poco rassicurante: «la democrazia della sorveglianza». Alcuni casi recentissimi sorti sull’utilizzo e il destino dei nostri dati personali – facebook – molto ci suggeriscono sulle implicazioni di discorsi molto complessi, e assai delicati, sui quali si giocherà buona parte del nostro futuro globalizzato.

Da noi, però, questo compito del controllo sociale diffuso si estrinseca ancora in una forma fisico-analogica, e ad esercitarlo è una particolare categoria di cittadini, quella che da tempo immemore – da prima ancora cioè che un tale capitan Migliori provvedesse fascisticamente a coprire il fiume Giovenco (cosa alla quale, ci assicura una canzone dell’epoca, nessuno aveva pensato) – presidia quella che a ragion veduta è l’unica piazza del paese, per quanto di piazze ce ne siano diverse, da noi (ma piazze senza persone costituiscono solo dei fondali di scena): ovvero piazza Mazzarino.

A Pescina si riconduce alla categoria di gente di piazza tutta quella articolata congerie di individui, in massima parte di sesso maschile e di età adulta, che si ritrova, variamente disposta, per consuetudine, sulla superficie della piazza, in molte ore del giorno e della notte, astretta in gruppi che di norma variano dalle due alle cinque unità, a discutere e parlare a bassa voce.

Come vedremo, tale categoria, per come appena sopra rozzamente definita, lungi dal disporsi casualmente in piazza Mazzarino, è attentamente geolocalizzata nelle sue varie zone, e pur non disdegnando alcuni (minimi) spostamenti su di essa – legati in buona misura al moto solare e alla stagione climatica – si connota per stazionare, quali singoli membri di tale più ampia congrega, sempre nel medesimo settore.

L’individuazione delle ragioni materiali e delle pulsioni psicologiche alla base della scelta della zona di azione del singolo appartenente alla categoria della gente di piazza – scelta che rimonta alla notte dei tempi – è compito arduo ma è in buona misura riconducibile con: a) l’esercizio pubblico di riferimento; b) la propria provenienza (abitazione) rispetto alla piazza; c) area politica di appartenenza; d) il vento di tramontana.

La dislocazione dei “popoletti” sulla piazza di Pescina (ma meglio sarebbe dire: intorno alla stessa) è di tipo statico, del tutto diversa dalle dinamiche che si registrano nei centri viciniori (quali, ad esempio, quelle natatorie stile Celano, dove delle batterie di soli uomini marciano su e giù incessantemente per ore in venti metri di lunghezza) e sino a non molti anni or sono era rigidamente compartimentata per osservanza ideale tribale e censuaria, in specie nei festivi; dopo, la situazione si è ingarbugliata, e tutti i giorni sono divenuti feriali, e sostanzialmente apolitici e interclassisti. Ma non meno animati. Perché la vera gente di piazza frequenta il ponte a prescindere da orari evenienze accadimenti, consacrandosi ad una fruizione pubblica che sa molto di vecchio regime (quando materialmente veniva naturale allontanarsi dalla baracca asismica sovrappopolata), di convivialità sui luoghi del paese esercitata con modalità più mediorientale che non appenninica; uso che resiste persino alla nuova era contrassegnata dalla fruizione privat(izzat)a dei luoghi e dei servizi. Vero è che la popolazione media che – anche singolarmente – troviamo immancabilmente ad un cantone di piazza Mazzarino, siano le sette di mattina o le dieci di sera, è fortemente invecchiata, ed il ricambio / parliamo a spanne, ad occhio / non sembra possa aspirare ad essere della stessa stoffa e qualità degli attuali astanti e men che meno dei precedenti, se non altro perché emigrato, dedito ad altro, poco portato ai colloqui lunghi rimpastati.

Per quanto l’espressione «gente di piazza» abbia, nelle case pescinesi, quando pronunziata, un retrogusto piuttosto negativo (si veda in proposito la trattazione comparsa sul numero precedente, dedicata alla figura del finto-burino), fatta salva la quota di coloro che stazionano in piazza e solo quello fanno (per i più diversi legittimi motivi, che non attengono alla presente trattazione), gran parte degli esponenti della categoria dei piazzaioli ha un lavoro, un’occupazione, una famiglia alla quale badare, ed il gotha di chi storicamente vi apparteneva, quando l’agricoltura era il fondamento della società, ostentava la propria presenza in piazza con sorprendenti levatacce anche con l’intenzione di far rilevare come essa avesse ancor prima provveduto, con il fresco (dicesi alle 5 a.m.) a disbrigare l’incombenza dell’orto, dello stramare gli animali, a togliere i nipoti dalla vigna. Implicazione ulteriore – quale avvertimento e monito –: tale presenza, era da intendersi inoltre quale messaggio rivolto a coloro dediti, in estate, al furto campestre (pratica da sempre molto florida e che si attua anch’essa prima dell’alba). Perché tutto si tiene, in un organismo collettivo, e perché uomo avvisato mezzo salvato; e perché le zucchine mie si riconoscono!

Dicevamo: non teme, il fenomeno oggi oggetto della modesta trattazione che state leggendo, invecchiamento di server, software, tecnologie e linguaggi informatici. La gente di piazza Mazzarino osserva quell’organismo vivente (morente) con le stesse modalità con le quali – con alta probabilità – i nostri avi guatavano la piazza detta dell’orologio (perché vi era l’orologio) o piazza del municipio (perché vi era il municipio). Ancor oggi, l’interesse principale della gente di piazza è l’edificio comunale, e sulle sue dinamiche interne, osservandolo dall’esterno, nessuno saprebbe e sa essere più preciso, neppure la più sofisticata diavoleria inventata nella Silicon Valley. Sarà la costanza nel monitoraggio, sarà l’occhio allenato, ma sulle dinamiche amministrative la gente di piazza ne sa più degli amministratori stessi (che molto spesso conoscono solo il loro pezzo di ingranaggio; e magari neppure tutto, o bene). Macchine parcheggiate, finestre aperte, luci accese: il contesto, così vivisezionato, restituisce una immagine che raramente è sbiadita, o contraffatta. Il caffè degli impiegati, la fine del servizio degli operai, l’espressione dell’assessore: il risultato non può essere che quello. Elaborato e fornito con precisione scientifica ed eloquio ora di stucco similbarocco ora di osceno gesso di trivio.

L’unica controindicazione è che Pescina non è un arrondissement di Parigi, non è che la vita amministrativa sia così piena di eventi [e l’ingravescente speronizzazione in corso non è tra gli argomenti cogenti o rilevabili], e dunque la macchina della chiacchiera della gente di piazza, sempre accesa a mo’ di altoforno, macina spesso sabbia senza calce, e nella sua betoniera vengono rimasticate più intenzioni e intuizioni che fatti tangibili (quelli privati, di accadimenti, sono più da fornaio, da frutteria, da sedie dinanzi all’uscio la sera). Tante volte si fanno gli amministratori più intelligenti di quanto effettivamente (non) siano. Ma anche questo fa parte dell’arte dell’attività, e non è un elemento accessorio: la chiacchiera vana o la maldicenza a prescindere non sono da assumersi quali manifestazioni accidentali ma costituenti del fenomeno analizzato ovvero il portato della rappresentazione messa in scena da chi la scena la osserva: in quanto tale, rubiamo le parole ad un personaggio al quale questa piazza sarebbe piaciuta molto, al punto di odiarla, quello integrato dalla gente di piazza per la comunità che si sublima nella piazza è : «il progetto del suo mantenimento in quanto oggetto morto, nella contemplazione spettacolare» (Guy Debord, La società dello spettacolo, 184).


TRATTO DA: ilmartellodelfucino 2018-5

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