“Il Martello del Fucino” – A FUTURA MEMORIA: 1915

Redazione
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Sul numero di aprile del giornale ciclostilato “Il martello del Fucino” appena uscito, viene rievocato il terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915 attraverso la ripubblicazione della prima parte della relazione dell’Autorità militare che allora guidò i soccorsi .Un documento eccezionale, che vale la pena di rileggere nell’emergenza di oggi, a futura memoria…

Di seguito riportiamo il testo, per scaricare il formato PDF del  numero completo, cliccare QUI oppure sull’immagine.

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Nella mattina del 13 gennaio 1915 un terribile sisma ebbe a flagellare un’ampia zona dell’Italia centrale, provocando, in massima parte nella Marsica, un numero di morti rimasto imprecisato, prossimo, in ogni caso, alle 30.000 persone.

Questa è la relazione dell’autorità militare che in quei duri frangenti operò nella Marsica orientale, la zona cioè che con Avezzano ebbe il maggior numero di lutti e di distruzioni (quasi 4.000 morti tra Pescina e San Benedetto – allora riuniti in un unico comune -, oltre 2.000 morti ufficialmente accertati a Gioia dei Marsi, e così via)


Il giorno 17 gennaio, in Avezzano, ricevevo dal Signor Maggiore Generale Comm. Guicciardi comandante tutte le truppe nella regione abruzzese, devastata dal terremoto, l’ordine di assumere il comando della “Sottozona della Marsica orientale” capoluogo Pescina, con giurisdizione sui seguenti paesi: Pescina, Collarmele, Cerchio, Ajelli, S. Benedetto, Venere, Gioia de’ Marsi, Casale d’Aschi, Lecce de’ Marsi, Ortucchio, Ortona, Aschi, S. Sebastiano, Cocullo.
Già prima del mio arrivo, vari reparti di truppa fra il 14 ed il 17 gennaio e mezzi sanitari militari erano giunti a prestar soccorso ad alcuni centri di quella sottozona più prossimi alla linea ferroviaria, sotto la direzione del Maggiore Cav. Longagnani del 13.mo Reggimento Fanteria.
Fra il 17 ed il 18 gennaio ho inviato in tutti i centri abitati di qualche importanza, compresi quelli dispersi sulle montagne, nuclei di truppe di forza adeguata e mezzi sanitari per prestare opera efficace di soccorso intesa a conseguire i seguenti scopi:
Estrarre le persone sepolte vive, medicare i feriti e sgomberarli nel più breve tempo sulla ferrovia Sulmona-Avezzano, con immediato inoltro negli ospedali;
vettovagliare la popolazione superstite, specialmente quella rimasta tagliata fuori dalle linee di comunicazioni e nell’impossibilità di provvedere da se stessa le derrate perché sepolte sotto le macerie;
disciplinare e provvedere all’estrazione e tumulazione dei cadaveri per necessità igieniche; disciplinare gli scavi delle proprietà private per salvaguardare i diritti degli eredi;
impedire a qualunque costo manomissioni e furti delle proprietà abbandonate e peggio ancora reati contro le persone;
improvvisare ricoveri nella più larga misura, in tutti i centri ove era popolazione superstite per il momentaneo riparo dei feriti in attesa di trasporto e degli incolumi;
promuovere appena possibile gli elementi per la rinascita a nuova vita dei centri abitati.

I comandanti di presidio e gli ufficiali tutti ebbero preciso ordine di regolare l’impiego delle truppe col criterio dell’urgenza relativa dei vari bisogni, che sarebbe variata di giorno in giorno a seconda dello sviluppo dei soccorsi prestati.
Ebbero ordine imperativo di fare con la propria testa, in relazione alla situazione locale, diversa per ogni centro, senza attendere né provocare ordini; la loro azione, come quella dei dipendenti, sarebbe poi stata giudicata solo in base ai risultati conseguiti e di tutti gli errori che potessero commettere nessuno sarebbe stato giudicato più grave di quello di attendere ordini per operare.

I. DISLOCAZIONE DELLE TRUPPE E DEI MEZZI SANITARI, ESTRAZIONE, MEDICAZIONE E SGOMBERO DEI FERITI
Fra il 14 ed il 17 gennaio vennero presidiate in forza proporzionata ai bisogni le seguenti località: Pescina città, Pescina stazione, Ajelli, Cerchio, Venere, San Benedetto, Lecce de’ Marsi, Casale d’Aschi, Collarmele, Ortucchio; complessivamente si avevano nella sottozona circa 4000 uomini, che alla fine del mese vennero ridotti a 3000.
Nel primo periodo di tempo la quasi totalità delle truppe fu impiegata nella ricerca ed estrazione delle persone vive.
Non ho parole sufficienti per lodare l’entusiasmo, la pertinacia, e lo spirito di sacrificio di cui tutti, ufficiali e truppa dettero la più grande prova in quest’opera di carità: ovunque nelle affannose ricerche, che ininterrottamente continuarono giorno e notte fino al 25 gennaio, sorgeva un barlume di speranza che qualche disgraziato vivesse ancora, squadre intraprendevano scavi quasi sempre pericolosissimi, diretti a penetrare sotto le macerie con gallerie o meglio cunicoli, fra grovigli di travi e ferramenta e blocchi di muratura sospesi in equilibrio instabile, per raggiungere i punti da dove partivano i lamenti o dove si sperava raggiungere un sepolto vivo.
Ogni salvataggio esigeva tempo grandissimo e purtroppo molto frequentemente dopo 10, 15 ed anche 20 ore di lavoro non si riusciva ad estrarre che un cadavere.
Ma ciò non sfiduciava affatto i nostri bravi soldati, sempre pronti a rinnovare in altri luoghi i tentativi.
Il maggior numero di salvati lo fu nei primissimi giorni; ma anche dopo il 17 gennaio si ebbe la soddisfazione di ridonare alla vita parecchie diecine di persone. L’ultimo vivo fu estratto nella notte dal settimo all’ottavo giorno, mentre nel terremoto calabro-siculo si salvarono persone fino al diciottesimo giorno.
Questa enorme differenza è certamente dovuta alle disgraziatissime condizioni di clima che si ebbero in quei giorni nella Marsica; ma poiché parecchi ufficiali avevano partecipato all’opera di soccorso nel precedente terremoto, così non facilmente rinunciarono alla convinzione che vi fossero ancora persone vive ed insistettero ancora più giorni nel continuare gli scavi. Perciò con sicura coscienza posso affermare che nel territorio affidatomi fu fatto quanto umanamente era possibile per salvare tutti i sepolti vivi. Ricordo fra altri l’opera immane compiuta nella piccola chiesa di Ortucchio (8 x 20 metri) dove si sapevano sepolte più di 420 donne. In quella chiesa dal 17 in poi ha lavorato una intera compagnia e l’ha vuotata completamente, ma solo una donna fu estratta viva, appunto nella notte dal settimo all’ottavo giorno.
Se le truppe, in forza, fossero giunte qualche giorno prima, forse qualche migliaio di persone sarebbero state salvate in più di quanto non avvenne.
I primi medici militari, con mezzi sanitari, vennero inviati sui luoghi e ne fu preordinato l’impiego nel giorno 14 per felice iniziativa del Colonnello Direttore di Sanità del VII Corpo d’Armata Dott. Minici, accorso da Ancona ad Aquila alla prima notizia che il terremoto aveva rovinato quella infermeria presidiaria.
Fra il 14 ed il 17, contemporaneamente alle truppe, numerosi medici con abbondanti materiali vennero a completare la prima organizzazione. Certamente i centri di Pescina, Collarmele, Cerchio, dislocati sulla ferrovia, ricevettero il soccorso sanitario da 24 a 36 ore prima degli altri nell’interno.
Però il numero dei feriti era tale che anche in questi luoghi, solo fra il giorno 17 ed il 18 come in tutti gli altri centri della zona, si potè dire assicurata la medicazione di tutti i feriti superstiti e degli estratti dalle macerie in quei primi giorni.
Altrettanto urgente quanto la prima medicazione, era lo sgombero di tutti i feriti della zona sinistrata sugli ospedali in regioni a clima mite; ciò perché nessun fabbricato adatto era rimasto utilizzabile sui luoghi e la rigidezza del clima in quei giorni (15 ed anche 16 gradi sotto lo zero) era tale da rendere penosissima la vita sotto qualsiasi tenda, non solo ai feriti ma anche alle persone sane e robuste, quindi nella sottozona di Pescina non si potè procedere all’impianto di tende ricovero per ospedale.
Ad accelerare lo sgombero dei feriti contribuì largamente la gara di pietà, che fece accorrere nei primi giorni in quei luoghi di dolore centinaia di automobili di comitati e di privati cittadini, specialmente dalla capitale, che moltiplicarono i mezzi già abbondanti colà concentrati dall’autorità militare.
Malgrado la lunghezza di tutti questi mezzi, un ostacolo serio allo sgombero dei feriti fu rappresentato dalle condizioni della viabilità: nei primi giorni le macerie cadute nell’interno degli abitati, là dove in massima esistono le diramazioni stradali, impedivano il transito ed obbligavano le autovetture ed i veicoli in genere a lunghi percorsi per raggiungere le stazioni ferroviarie.
Successivamente, dopo che le truppe ebbero ristabilita la viabilità, si ebbe un nuovo ostacolo nelle abbondanti nevicate e violente bufere che in quei giorni infuriarono nella regione.
In molte plaghe poi l’ostacolo grave e permanente era rappresentato dalla mancanza di strade rotabili, sicché il trasporto dei feriti dovè compiersi a soma dalla montagna al fondo valle; anche in queste plaghe, sia pure con qualche lentezza, fu possibile provvedere allo sgombero in grazia della previdenza dei Comandi superiori che fecero giungere insieme alle truppe numerose salmerie, nonché per una discreta quantità di quadrupedi da soma esistenti e rimasti vivi nella regione.
Disgraziatamente però la popolazione era in massima parte contraria allo sgombero: ma il Comando della sottozona fu inesorabile nel pretenderlo, in ciò consigliato da tutti i sanitari; i quali vedevano giornalmente aggravarsi le condizioni di taluni dei primi medicati che, sordi alle ingiunzioni si erano sottratti allo sgombero; ciò per l’impossibilità materiale in cui ci si trovava di dar loro un riparo qualsiasi contro le intemperie.
Il giorno 19 gennaio poté dirsi attuato lo sgombero generale di tutti quelli che lo accettarono volontariamente; il giorno 25 febbraio fu ordinato e fra il 25 ed il 28 eseguito coattivamente per tutti i recalcitranti, che però alla fine lo accettarono con acquiescenza.
Lo sgombero procedè con le seguenti modalità: nei primi giorni i feriti venivano trasportati alle stazioni di Cerchio, Collarmele e Pescina, dove funzionavano posti di soccorso affidati ad ufficiali medici; nel viaggio in treno erano accompagnati da personale delle Associazioni di soccorso ed alla Stazione di Sulmona [Roma? ndr] quelli più gravi ricevevano assistenza da un altro posto di soccorso, che provvedeva anche allo smistamento sugli ospedali di quella città.
Dopo il 25, in relazione alla migliorata viabilità, l’imbarco dei feriti e malati provenienti dall’interno si effettuò solo alla stazione di Pescina.
I primi feriti vennero avviati nei primi momenti promiscuamente agli ospedali di Roma ed a quelli della costa adriatica; dal 20 in poi solo sugli adriatici e cioè: Ospedale Civile Sulmona, Ospedali militare e Civile di Chieti, Ospedale Civile di Pescara, Ricovero Ospedale della Croce Rossa in Castellamare Adriatico, Ospedale Civile di Teramo, Ospedale Civile di Giulianova, Casa di salute […] in Ortona a mare.
Man mano si completava lo sgombero dei feriti dalle varie località venivano contemporaneamente ridotti gli impianti e mezzi sanitari, il che potè dirsi compiuto per l’intera sottozona alla fine di gennaio.
A quella data si lasciarono medici militari solo nei pochi centri in cui non era stato provveduto con medici civili, nonché beninteso in quelle altre località che avevano ancora provvisoriamente un forte presidio.
Non si può passare sotto silenzio a riguardo dei feriti, un grave inconveniente: per lo straordinario attaccamento al luogo natìo ed alla proprietà, molti feriti ancora ben lontani dalla guarigione, evadevano dagli ospedali ritornando lassù in condizioni disgraziatissime, senza tetto e senza mezzi di riparo; quelli scoperti furono riaccompagnati agli ospedali, ma non è escluso che più d’uno abbia perduto così miseramente la vita.
(1 – continua)

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