i racconti di Peter Guide: ODORE DI INCHIOSTRO

Redazione
Redazione
19 Minuti di lettura

f-o-carica3.jpgTornato da uno stressante viaggio di lavoro nel Delta del Niger, dormo finalmente tra le lenzuola pulite del mio loft nella periferia newyorkese.
A mezzogiorno mi sveglia di soprassalto il trillo insistente del campanello: al videocitofono vedo il solito postman che, bagnato dalla pioggia, continua a suonare spazientito. Esco in mutande, lui mi getta un’occhiata di disapprovazione e poi mi sommerge di posta: bollette, riviste, una cartolina di mio figlio (la prima dopo sei mesi) che mi saluta dal Tibet, e poi una montagna di pubblicità.
Faccio per rientrare ma il postino mi blocca con un ghigno: “Ci sono anche questi da firmare…”. Mi molla solleciti di pagamento dell’ultima ex moglie, dell’ufficio imposte, dell’assicurazione sanitaria e, infine, un pacco proveniente dall’Italia con scritto, in bella mostra, “Fragile”.
Rientro in casa, butto la posta sul divano e mi infilo sotto la doccia calda.
Mentre mi preparo soddisfatto la prima robusta colazione dopo il rientro dall’Africa, il pacchetto attira la mia attenzione: incuriosito, lo scarto e salta fuori la confezione di un DVD con un buffo titolo, “Odore di inchiostro”.
Sorseggio il caffè e rigiro la custodia tra le mani per capire di cosa si tratta, poi guardo con attenzione la foto sul retro di copertina e mi viene da trasalire: “Diamine, ma questo è il mio amico Brilli!”
Riconosciuto il cavallo, guardo con attenzione il resto: mi tornano così alla mente i luoghi e i volti di molte delle persone citate sulla custodia del DVD.
f-x-peppe1.jpgCome in un flash-back, il pensiero corre ad una singolare esperienza vissuta tra le montagne dell’Abruzzo interno…
Primavera del 2006, vigilia delle elezioni politiche: mi trovo in Italia per un reportage commissionatomi da un giornale canadese. Quello che succede nel Bel paese preoccupa tutte le democrazie occidentali: “Se è successo lì – mi aveva detto il direttore prima di partire – può succedere anche qui da noi…”.
A Roma sono attonito testimone di una campagna in cui un unico soggetto – inondando i suoi spot elettorali da giornali, tv, radio e persino dai poster sui muri – riesce a mettere in ombra avversari e alleati. Invio in Canada il mio inquietante reportage e decido di prendermi una meritata vacanza.
Incontro in un locale di Trastevere un vecchio amico, Greg, un antropologo texano: tanti anni fa, negli States, sbarcavo il lunario suonando il contrabasso con la band di suo padre Bill.
Tra una birra e un pezzo jazz, Greg mi suggerisce di visitare l’Abruzzo, regione che conosco solo dai diari dei viaggiatori inglesi dell’800 e dai romanzi siloniani.
Mi ritrovo così, armato solo di cartina turistica e fotocamera, tra queste valli e montagne. Fa caldo e ho sete: mentre risalgo la vecchia Tiburtina fino alle Gole di San Venanzio, sotto una rupe che sovrasta il fiume Aterno trovo una fontanella e decido di fermarmi.
f-o-acqua3.jpgIn mezzo al fiume, che con il suo scorrere impetuoso la fa da padrone, vedo due individui che fumano seduti sui massi.
Mi offrono una sigaretta e si presentano: Haydir e Angelo, un improbabile regista di origine irakena e un ancor più improbabile giornalista. Sono alla ricerca – mi dicono – di luoghi adatti a girare alcune scene di un loro documentario su un tema che nei giorni scorsi ho avuto modo di conoscere in tutta la sua drammaticità: il problema dell’informazione in Italia.
“Lui è il produttore”, dice Haydir indicando Angelo che sarcastico risponde: “Sì, sono l’unico con la partita Iva”. Haydir non raccoglie e mi parla con trasporto di stampa autoprodotta, di ciclostile e poi infila nel discorso don Chisciotte e Sancho Panza.
Il progetto mi sembra fumoso e capisco al volo che non ci sono soldi, ma la storia è curiosa e decido di aggregarmi alla compagnia: in fondo sono in vacanza.
Vaghiamo così per alcuni giorni nei Piani di Pezza, la Cunicella, Amplero, il Salviano, Forca Caruso e nei maneggi di Ovindoli, Rosciolo e La Petogna.
I problemi sono vari. Il regista cerca scenari per i campi lunghi, ma dai luoghi che propone il produttore anch’io mi rendo conto che non sa di cosa si tratta. Altro problema è una scena di Don Chisciotte che – nelle intenzioni del regista – attacca i ripetitori Tv invece dei mulini a vento e, infine, il reperimento e il trasporto di asino e cavallo.
La situazione è curiosa: se si trova il cavallo manca l’asino, oppure il luogo per le riprese è lontano e non si rimedia un mezzo per il trasporto degli animali.
Alla fine, gli amici dell’agriturismo La Locanda di Cerchio mettono a disposizione asino e cavallo che, in due ore, possono raggiungere al trotto i ripetitori di Forca. Resta il Campo lungo. Angelo ci accompagna sotto le pale eoliche di Collarmele e dice a brutto muso: “Questo è il campo lungo. Va bene?” Haydir, vista la mala parata, intuisce che il film è a rischio e intimorito annuisce.
Superato a fatica il primo scoglio, si individuano gli attori per interpretare Don Chisciotte e Sancho mentre vari amici prestano armatura, costumi e oggetti d’epoca. A questo punto il regista, solenne, avverte tecnici e operatore: “Sabato prossimo si parte con il primo ciak!”
Ma più che all’opera di una troupe cinematografica mi sembra di assistere alle gesta dell’armata Brancaleone: la sera della vigilia salta tutto. A dare forfait sono i due ragazzi che devono accudire gli animali: dello staff, gli unici pagati…
Si rinvia tutto alla settimana successiva, ma i due attori non sono disponibili: don Chisciotte deve cucinare nel suo ristorante e Sancho ha un esame all’università. Il regista, deciso a girare ad ogni costo, li sostituisce all’ultimo minuto con un amico musicista e uno dei ragazzi che deve accudire gli animali.
f-o-pale2.jpgAlle otto di mattina ci ritroviamo una decina di persone a Collarmele, nella valle dietro l’impianto eolico. Montato il campo intorno all’area attrezzata e al fontanile, iniziamo a scaricare le attrezzature dal camper dell’operatore: telecamera, cavalletto, carrello, steadycam, monitor, microfoni, luci eccetera.
Angelo, che per l’occasione ha preso in prestito il fuoristrada dell’editore di La Vanga, ha pensato ad attrezzi, medicinali, radiotrasmittenti e, manco a dirlo, al vettovagliamento suo e di tutta la troupe: bevande, cioccolate, sigarette, dolci, carbonella, graticola…
All’improvviso, mentre prepariamo don Chisciotte con l’armatura, sentiamo ragliare e finalmente sopra il crinale appare un cavaliere che si trascina dietro un’altro cavallo e un asino. L’uomo scende di sella e dice: “Questo è Brilli e lui è Barone. Trattateli bene”.
Dopo un po’ di tempo dallo stesso crinale spunta anche un pastore con un gregge. “Haydir, ti servono le pecore?”, chiede Angelo mentre si avvia incontro al pastore, incurante degli avvertimenti di Sancho che l’informa che si tratta di un rumeno che non parla assolutamente italiano. Da lontano vedo i due gesticolare e dopo un quarto d’ora Angelo torna e dice: “E’ un rumeno di quarant’anni e si chiama Nicolas. Il gregge è di 200 pecore, il padrone è di Celano e la stalla sta a Cerchio. Va a pascolare verso Forca e ripassa qui alle quattro di pomeriggio”.
Incuriosito, gli chiedo in quale lingua abbiano parlato e lui, con aria ingenua, mi risponde: “A gesti!”. Haydir, stupito, gli chiede quanto ci costa e Angelo risponde: “Niente, ha accettato solo un pacchetto di MS da dieci in regalo”.
Montate le attrezzature e preparati attori e cavalcature, si parte finalmente con le riprese. E iniziano nuovi problemi: Barone è in calore. L’asino non perde occasione per esibire il suo membro lungo oltre mezzo metro e provare a saltare sulla groppa del cavallo (…anche lui maschio!) che lo precede con in sella un don Chisciotte sempre più impaurito.
Barone, oltre che eccitato è anche dispettoso e da solo riesce a far saltare tutti i programmi: si ferma davanti la telecamera a metà ripresa, si sposta nella direzione opposta, morde Sancho e quando s’impunta non c’è verso di farlo camminare.
In questo luogo desolato il sole picchia duro e contribuisce a dare a Don Chisciotte quell’aria sofferente e trasognata degna di una scuola di alta recitazione. Con in testa l’elmo di rame arroventato, il poveretto ormai ha il cervello fritto, tanto che mentre si siede sfinito e ansimante indica la valle e come in preda a un miraggio esclama: “Le paste!”
In lontananza vedo anch’io un uomo dal pelo rosso che risale la valle con un vassoio in mano. “Arriva Botticchio – mi informa Haydir – è l’editore de ‘Il martello del Fucino’ e coautore del documentario”.
Più tardi facciamo la pausa pranzo: la brace è pronta e Danilo ci ha raggiunto con pane e salsicce recuperate a  Collarmele. Il produttore, affamato, si cimenta nella cosa che pare gli riesca meglio e alla fine ci rifila salsicce e pancetta: una grigliata ottima che per qualche momento ci distrae dalla fatica e dalle difficoltà.
Nel pomeriggio ricominciamo con le riprese e verso le quattro in lontananza riappare Nicolas con il gregge. Haydir prepara la troupe e istruisce gli attori: “Dovete passare in mezzo al gregge – e mentre don Chisciotte prova ad anticiparlo sfoderando la sciabola, aggiunge – non devi fare strage di ‘Mori’. Attraversa il gregge e prosegui verso le pale eoliche”.
Superate le paure di don Chisciotte per la presenza dei cani pastore abruzzese, Haydir ordina: Azione!
Don Chisciotte a piedi s’infila nel gregge tirando Ronzinante per la capezza, dietro segue Sancho che tira l’asino: all’improvviso scoppia il caos.
Barone, con il membro sfoderato, azzanna una pecora sulla schiena, la solleva e scappa con l’animale in bocca mentre il gregge spaventato si disperde. Sono momenti di paura: Peppe per salvare la telecamera scappa con la steadicam indosso, Don Chisciotte e Sancho restano impietriti con lancia e scudo in mano. Il resto della troupe, al grido di “Barone! Barone!” corre dietro all’asino che scappa con l’animale in bocca, mentre i cani abbaiano e il pastore urla, in italiano: “La pecora! La pecora!”
Dopo lo spavento, recuperiamo le attrezzature. Il regista, sconsolato, si rassegna a cambiare la scarna sceneggiatura e avvilito promette: “Non girerò mai più un film con un asino”.
I giorni successivi si pone un altro problema. Occorre un mezzo per le riprese in movimento e, scartate le ipotesi più fantasiose, si decide di utilizzare una Cinquecento: “magari togliamo il coperchio del cofano – dice Haydir – e l’operatore con la steadycam si siede dentro”.
Angelo inizia la ricerca e alla fine recupera da un suo conoscente di Luco, Iulo, un esemplare della vecchia utilitaria.
Quando Angelo si presenta sul luogo delle riprese a bordo di quella cinquecento color giallo Giannini, il regista rimane come estasiato e accarezzando la piccola auto mormora: “Perfetta! Rifaccio la sceneggiatura del film: riduco la presenza di Barone e lo sostituisco con questa”.
Angelo lo guarda sorpreso e non si rende conto di cosa gli sta riservando Haydir per i giorni successivi. Lui è l’unico del gruppo che da giovane ha posseduto una Cinquecento e, a causa della mitica doppietta, è il solo in grado di guidarla senza troppi problemi.
f-o-peppe2.jpgUltimate le riprese in movimento già programmate, per Angelo inizia il calvario: giornate intere chiuso dentro quella scatola di latta rumorosa e arroventata dal sole a picco, a ripetere più volte le stesse scene. “Rifalla con un’andatura più romantica. Mi raccomando: più romantica!“, gli ordina Haydir attraverso la radio. E lui su e giù per le sterrate di Forca, sotto le pale eoliche e lungo strade percorse ormai da pochissimi veicoli. E poi il tormento del cofano che non si chiude, la freccia da spegnere o i fari da accendere, la benzina che finisce, spesso in piena scena. Iulo lo aveva detto: “Il serbatoio è bucato, non versate più di 4 litri di benzina, altrimenti la perde”.
I luoghi dove Haydir sceglie di girare il film, ma anche tutti quelli visitati nelle lunghe e continue ricognizioni, sono selvaggi e bellissimi. Anche se i miei compagni di ventura non paiono particolarmente toccati, a me sembrano affascinanti anche i piccoli centri dove si stampano i fogli ciclostilati e dove giriamo scene e registriamo interviste.
Quello che mi sorprende, è che non esiste una vera e propria sceneggiatura del film e anche gli intervistati parlano a ruota libera, praticamente senza domande. Sulla piazza di Luco si sfiora l’assurdo: arriva Americo, un tipo simpatico che a tempo perso partecipa alle recite della compagnia di teatro dialettale del paese, si infila nel circolo Arci ed esce fuori vestito da contadino anni ‘50.
Il regista gli dice solo: “Parti da lì, arriva davanti la telecamera e inveisci per un paio di minuti contro giornali e tv”. Americo ripete per due sole volte, così, senza copione e senza provare.
Io mi diverto ma questo loro modo di lavorare mi lascia alquanto interdetto: non riesco a capire come questa allegra brigata possa pensare di montare tutto quel materiale e farne uscire un film.
In dodici giorni distribuiti nell’arco di cinque settimane, con mezzi rimediati e con la collaborazione di amici, praticamente senza soldi e sceneggiatura, producono oltre venti ore di riprese.
La mia vacanza è finita, chiamo l’amico Greg per salutarlo e ringraziarlo del consiglio che mi ha dato: valeva la pena di visitare quest’angolo d’Abruzzo.
Due giorni dopo mi alzo di buon’ora per preparare la valigia. Haydir si offre d’accompagnarmi all’aeroporto, ma con il produttore: “Ha l’auto con l’impianto a metano”, dice.
Durante il viaggio ricordiamo i momenti vissuti insieme in queste settimane, Haydir mi chiede un parere sul film.
Io gli domando con tono serio: “Quale film?” e il regista ribatte con aria piccata: “Come quale, il nostro!”
f-v-operatore3.jpgGli faccio notare che prima di parlare di film bisogna ancora lavorare molto: Haydir annuisce, ma Angelo sembra non rendersi conto e mi chiede preoccupato: “Perché, cosa manca ancora?”
Provo a chiedergli con tatto come faranno per il montaggio, le musiche, la voce fuori campo. Haydir, forse preoccupato dell’aria sospettosa del produttore, prova a cambiare discorso dicendogli: “Stai tranquillo. Facciamo scrivere i testi a Botticchio e iniziamo a montare il film – poi si rivolge a me e chiude il discorso con – Peter sbrigati, l’aereo sta per partire”.
Ci salutiamo con un abbraccio. Mentre mi avvio all’imbarco mi volto e gli grido: “Quando è pronto, mandatemi il DVD. Buona fortuna!”

Il campanello del forno a micro onde mi avverte che la mia colazione è pronta.
Preparo tutto sul tavolinetto, stappo una birra, infilo il DVD nel lettore e mi siedo sul divano. Con libidine azzanno il primo hamburger e mentre maionese e ketchup mi colano addosso, parte la schermata iniziale. “Però – penso compiaciuto – la frase di Pulitzer promette bene”.

Condividi questo articolo