FRAMMENTI [ 1] – Luce abbagliante

Redazione
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Aquila, 5 agosto

Luce abbagliante. Arrivare in un campo terremotati in una giornata d’agosto è innanzitutto questo: la ghiaia bianca, che con la pioggia impedisce che tutto diventi un’immensa distesa di fango, si aggrappa ad ogni singolo raggio di sole e con ferocia lo restituisce centuplicato. E così ti costringe, quasi in segno di rispetto, a frapporre un velo tra lo sguardo e le cose.
Gli occhiali da sole sono indispensabili, altrimenti anche il buio delle tende diventa ancora più buio quando ci entri.
Sul bianco immacolato il ministero dell’interno, attraverso la protezione civile, ha messo a disposizione un blu che fa a gara con quello del cielo: le tende.

Arrivare in un campo di uno dei piccoli comuni che circondano l’Aquila, anche tra i più colpiti dal sisma, in un giorno d’agosto, non è molto diverso da arrivare in un campeggio. E questo un po’ disturba. Perché uno, forse, si aspetta di trovare un’atmosfera più sofferente, e tutta questa efficienza proprio non si comprende. Ma poi basta mettere il naso fuori dal campo, e scoprire interi paesi inaccessibili e chiusi in ogni loro entrata da alte cancellate, per restituire a ogni cosa l’attesa gravità.

Le macerie sono ancora lì, immobili, a testimoniare di una notte mai finita e rimasta appesa a scolapasta che spenzolano nel vuoto, o affacciata a finestre che ora danno sul nulla. A pochi metri dal silenzio del tempo, ruspe spianano il terreno per costruire nuove esistenze. Questo stupisce: la sensazione netta che non ci sia ancora, e forse non ci sarà mai, lo spazio per una ri-costruzione. Qui all’Aquila si costruisce, e forse si fa anche a gara a chi lo fa più in fretta, non si ri-costruisce.
Per il momento i paesi vecchi restano affidati alla silenziosa custodia degli animali attoniti scampati ai crolli.

Dentro al campo scorrono parallele, forse senza mai incontrarsi veramente, le esistenze di chi aiuta e chi è aiutato. Che forse non vorrebbe neanche essere aiutato, ma essere lasciato in pace e tornare alla propria casa. Di giorno si incontrano quasi esclusivamente volontari e vecchi. Gli adulti, i giovani, sono al lavoro; non bisogna dimenticarsi che il campo è la copia sbiadita di una città.
In questo riflesso opaco della vita di un paese vero, è buffo ritrovare certe dinamiche che si ripetono identiche a se stesse mentre altre vengono snaturate; o forse vanno semplicemente ad attingere in modelli di comportamento più arcaici, che nella vita “normale” erano già stati superati. E così mi imbatto di frequente in nette distinzioni tra occupazioni maschili e femminili che mi fanno quasi sorridere.

Nella vita di campo che si sta facendo più autosufficiente, ad esempio, gli uomini puliscono i bagni e le donne stanno in cucina. Gli uomini preparano i tavoli per la sagra di paese che si sta allestendo, mentre le donne vanno in giro per i paesi a fare attacchinaggio. E non c’è verso che le cose vadano diversamente.
Impossibile trovare nella lavanderia un uomo; anzi, appena arrivata mi viene detto in via confidenziale che se voglio capire veramente come funziona la vita del campo devo passare qualche ora nella baracca di lamiera dove stanno le lavatrici e dove le donne sostano in pazientissima attesa dei loro panni. Poco distante dalla lavanderia, la domenica si tagliano i capelli: in pochi metri quadrati l’universo femminile ha ripreso il controllo.

Questo sulla distinzione tra i generi.
Scopro ben presto che la sciagura più grande per un terremotato, e di conseguenza la cosa più sconveniente che gli si possa chiedere, è di essere sfollato in uno degli alberghi sulla costa anziché in campo. Una delle soluzioni tanto sbandierate da Berlusconi. La cosa più importante infatti è rimanere vicino alle proprie cose, alle proprie case, qualsiasi cosa ne sia. E qui si apre quell’altro grande, immenso capitolo, che è il rapporto delle persone con le cose che hanno lasciato e in molti casi perduto per sempre.
E se nei giovani la certezza dell’irrecuperabilità si accompagna comunque alla speranza di nuovi inizi, nei vecchi è struggente vedere la consapevolezza dell’aver perduto per sempre fare a cazzotti con la rinuncia; nei loro racconti quasi sempre il presente, e non il passato, è il tempo della casa. E così, mentre le ore si riscaldano sotto le tende del campo, mi trovo a percorrere lunghi corridoi, ad entrare in ampie sale da pranzo apparecchiate per l’arrivo domenicale di tutta la famiglia, ad aprire armadi che custodiscono antichi corredi.
Nel racconto i vecchi si aggrappano al presente per dipingermi case e vite lungamente vissute.

Camilla Endrici
[ camilla.endrici@libero.it ]

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