DIARIO DA GAZA – 1- Venerdì 24 gennaio

Redazione
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24 Gennaio, venerdi’

Sono uscita da Gaza, non mi capita spesso di uscire di venerdi’. La strada da Abu Ghalion ad Eretz alle 9 del mattino si presentava completamente deserta. Non che ci sia gran traffico in questi giorni data la carenza di benzina e carburante…ma il venerdi’ e’ come se la citta’ fosse addormentata.

Ho trascorso il tragitto a guardare fuori e a parlare con Muneer, il tassista. Gaza sembra tranquilla ma tutti si aspettano un nuovo attacco…l’aria e’ tesa, gli omicidi mirati della scorsa settimana sono sembrati avvertimenti….Gaza questa mattina sembra tranquilla ma i palestinesi no. Si rincorrono notizie contrastanti…”gli attacchi sono a sorpresa, potrebbero avvenire da un momento all’altro, non sappiamo cosa aspettarci” mi dice Muneer.

gaza1-24gennaio.jpgArrivata ad ‘arba-‘arba (il posto di controllo di Hamas), non c’era nessuno oltre me. I poliziotti mi salutano e mi chiedono se voglio un caffe’. Continuo con Muneer fino a Khamsa-khamsa (il controllo dell’autorita’ palestinese) e li’ con me ci sono due donne e una famiglia palestinese con 6 bambini. Le 4 bambine sono tutte uguali, tutte con le trecce, tutte con la maglia a righe rosa, solo una piu’ alta dell’altra. Iniziamo a camminare per il tunnel assieme, 2 km sono tanti ma i bambini lo prendono come un gioco e iniziano a fare una gara di corsa, superandosi a vicenda.

gaza2-24gennaio1.jpgArriviamo al checkpoint israeliano – Eretz. Aiuto le due donne con le loro valigie e le buste di dolci di gaza che stanno portando dall’altro lato. Appena entriamo si chiude la porta metallica dietro di noi e restiamo nella stanza con il tavolo davanti dove c e’ l’occhio elettronico, e apriamo le nostre borse. Prendo la valigia piu’ grande delle due donne e cerco di farla passare attraverso il primo tornello…ma non c e’ niente da fare. Siamo rimastio li’ tutti ad aspettare che aprissero la porta dopo aver comunicato attraverso una specie di citofono con gli addetti alla sicurezza che non saremmo mai riusciti a passare con tutte quelle valigie attraverso i tornelli. La bimba piu’ piccola dei sei, di 3 o 4 anni, dopo una ventina di minuti di attesa inizia a piangere, si sente chiusa, chiama la mamma e le dice che vuole tornare indietro, vuole andare a casa sua. E’una bambina bellissima, occhi grandi, scuri, 5 treccine in testa e un capottino rosso. Mentre la mamma cerca di consolarla, finalmente aprono la porta. Aiutandoci a vicenda, arriviamo nella stanza del metal detector dove dobbiamo lasciare tutti i nostri averi e separare il materiale elettronico dal resto. Ci dicono di toglierci tutti i cappotti e li’ la bambina inizia a singhiozzare, urla che ha paura, non vuole stare li’ dentro, non vuole togliersi il cappotto. Una delle due donne mi guarda e mi dice “haram, e’ spaventata”. Il papa’ inizia a giocare con lei per farla calmare ma la bambina non si ferma. Io odio la mia emotivita’, mi si fanno gli occhi lucidi, mi giro dall’altro lato, mi calmo e inizio a fare facce strane per farla ridere. Gli altri bambini ridevano ma lei no. I bambini non dovrebbero vivere questo. Il padre inizia a maledire la paura, e’ esausto, ha tante valigie che continuano a tornare indietro dal metal detector accompagnate da una voce che dal citofono dice in un arabo stentato che c’e’ qualcosa che non va. Iniziano ad aprire tutti i dolci, a tirare fuori vestiti, boiler fino a quando finalmente le valigie vanno. Attendiamo che si apra la porta per dirigerci verso il body scanner, la bimba non smette di piangere. Non riesco neanche ad immaginare cosa possa sembrare agli occhi di una bambina questo aggeggio infernale. La mamma indossa un velo che le lascia visibili solo gli occhi, degli occhi meravigliosi che credo farebbero innamorare chiunque. La prende in braccio e dopo avere fatto passare tutti gli altri figli, passa con lei che continua ad urlare. Dopo il body scanner, si finisce in una stanzetta con porte di vetro e si attende la luce verde per potere uscire. Io stavo aspettando che uscissero i bambini che non riuscivano a trovare la via d’uscita per indicare loro la strada. In quel momento ho pensato che avrei dovuto trasformare tutto in un gioco, mi nascondevo dalla porta e poi mi riaffacciavo al vetro, tendevo la mano ai bambini e loro ridevano. Io dentro stavo esplodendo. Il papa’ lo hanno trattenuto un po’ di piu’ al body scanner,”sposta il piede”, “alza le braccia”, “facci vedere le tasche”, la moglie lo aspettava su una delle sedie che ci sono la’ dove si attendono le valigie e la bambina urlava che voleva suo padre, che lo stavano portando via, che non voleva stare li’, che voleva uscire fuori. Raccolte tutte le valigie arriviamo al controllo passaporti, appena arrivo io al controllo tutti i bimbi mi vengono dietro e continuano il gioco di nascondersi e di darmi le mani. Si affacciano posando le mani sul vetro della porta ed io faccio lo stesso dal mio lato facendo delle smorfie. La ragazza israeliana della sicurezza, non mi fa alcuna domanda, solo inizia a ridere ed io non posso fare a meno di pensare come riesca ad accettare il lavoro che fa. Non sei ad un casello autostradale, sei in un checkpoint che tiene chiuso un popolo, che cerca di umiliarlo ma senza riuscirci perche’ la dignita’ dei palestinesi e’ molto piu’ forte di loro. Gli occhi fieri di quell’uomo li ricordero’ per sempre, cosi’ come ricordero’ lo sguardo di quella bambina.

Arrivo a Gerusalemme e leggo che un ragazzo di 20 anni di Gaza, Samer Oweidah, e’ stato ucciso, colpito da un proiettile israeliano mentre protestava con altri giovani a Est di Jabalya contro la buffer zone (zona di confine) che impedisce ai contadini di raggiungere e lavorare le proprie terre.

Gaza non e’ mai tranquilla….

 Valentina Venditti

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